Iniziamo, dunque, dalla matematica, serva e padrona di tutte le scienze.
Non sono un matematico. Ma ho un rapporto personale di vecchia data con un numero, π. Quella che ci lega è una catena lunga e, manco a dirlo, illimitata e non periodica. All’origine c’è, probabilmente, quella prima volta che alle scuole elementari, qui sull’isola d’Ischia da cui scrivo, imparammo a calcolare la circonferenza di un cerchio: 2 π r. I miei compagni di classe, per quanto piccoli, sapevano fare bene 2 + 2. La maestra aveva appena detto che «la circonferenza è pari a due pi greco erre», che già tutti girarono lo sguardo verso di me – P. Greco, pi greco – e iniziarono a ridere.
Da allora il mio rapporto con π è diventato lungo come una catena. È diventato una catena, anche se dolce da sopportare. Lui, π, non è legato a me. Neppure sa che esisto. Tra le sue infinite cifre non ci sono. Ma io sono legato indissolubilmente a lui. L’ho incontrato costantemente – anzi, illimitatamente – nella mia vita. E ogni incontro preludeva a qualcosa di nuovo, in maniera non periodica appunto. Tra gli incontri più significativi – le occasioni che oggi mi consentono di proporvi questa voce – c’è quel giorno di un quarto di secolo fa che scrissi per il giornale dove lavoravo come giornalista scientifico, L’Unità, una breve storia di π. Recensivo un libro di Petr Bechmann, A History of π.
Ne sortì qualche lettera divertita e pensavo che tutto sarebbe finito lì. Ma come è successo spesso a π (inteso come numero), quell’articolo scomparve come in un fiume carsico per riapparire molto lontano nel tempo e nello spazio, in un liceo di Reggio Emilia agli inizi dell’anno 2015.
Un anno, particolare il 2015. Per via del fatto che, grazie al presidente degli Stati Uniti d’America Barack H. Obama, il 14 marzo si celebra il π day. Nessun altro numero si è visto dedicare un giorno. Gli americani amano scrivere la date in modo (per noi) bizzarro: mettono al primo posto il mese (3, nel caso di marzo), poi il giorno (14 nel caso del π day) e infine le ultime due cifre dell’anno. Ora avete capito, nel 2015 il π day cadeva il 3.14.15, qualcosa di molto simile a 3,1415 che contiene le prime quattro cifre decimali del nostro. Dunque … grandi festeggiamenti.
Un professore di matematica, all’inizio di quel fatidico anno, tira fuori dal suo archivio il mio vecchio articolo e decide di invitarmi a scuola per una conferenza su π. La mia prima conferenza su pi greco.
La catena non si ferma. Perché per l’occasione approfondisco il tema. Cerco di conoscerla più a fondo la storia di pi greco in una dimensione a me tutto sommato estranea, la matematica. E scopro che il mio numero stalker, quello che da oltre mezzo secolo ossessivamente ma deliziosamente mi perseguita, attraversa per intero la storia della matematica e della scienza intera. Lo trovi dappertutto e spesso da protagonista assoluto.
Decido così di aggiungere un nuovo tassello alla lunga catena e di scrivere un libro Storia di π, uscito manco a dirlo il 14 marzo (del 2016). E questo, probabilmente, ha spinto gli amici di una rivista divulgativa di matematica, Lettera matematica, ad aggiungere a loro volta un nuovo anello alla catena del mio rapporto con questo numero trascendente. Ed eccomi, dunque, che mi ritrovo a scrivere per il n° 100 di quella rivista di esperti un nuovo paragrafo di questa strana e intrigante liaison tra due pi greco.
Oggi non faccio altro che riprendere l’antico rapporto e incastonarlo addirittura in un dizionario dei termini che ritengo più significativi della scienza e della filosofia (e dell’arte). Ebbene, a oltre mezzo secolo dall’inizio del nostro rapporto, a partire dal 2015 e dall’incontro di Reggio, ho scoperto che π ha una storia e una natura davvero particolari.
La storia del nostro risale a tempi molto antichi. I primi popoli capaci di leggere e scrivere e far di conto, i Babilonesi e gli Egizi, sapevano bene, 4.000 anni fa o giù di lì, che il rapporto tra la circonferenza e il diametro di un cerchio è costante. In qualsiasi cerchio questo rapporto è pari, secondo i calcoli dei Babilonesi, a 3,125. Mentre per gli Egizi è pari a 3,160. Sia i matematici che abitavano tra i due fiumi, i Mesopotamici che si bagnavano nelle acque del Tigri e/o dell’Eufrate sia i matematici egizi calcolavano il valore di questa costante con metodi diversi, ma entrambi geometrici. Il che dimostra non solo che entrambe le comunità matematiche conoscevano la geometria elementare, ma che la ricerca di un valore preciso di π ha dato un formidabile contributo allo sviluppo della geometria. Fin dalle sue origini, dunque, il nostro si è ritagliato un ruolo non banale nello spazio matematico.
Un ruolo che non ha certo abbandonato, ma anzi esaltato quando, tra Atene e la Ionia, i Greci scoprono «la potenza della ragione». Non citiamo né Pitagora né Ippaso con la scoperta dei numeri irrazionali. Giungiamo direttamente alla scuola di Platone, il filosofo che – scrive lo storico Carl Boyer – pur non avendo personalmente dato alcun contributo specifico alla produzione di nuova conoscenza in matematica è stato il maestro dei più grandi matematici del IV secolo prima di Cristo.
Tra i discepoli di Platone c’è Eudosso, che inventa un metodo generale che si rivelerà utile per il calcolo sempre più preciso di π: il metodo dell’esaustione, che si fonda su due concetti moderni, quello di «piccolo a piacere» e quello del «ragionamento per assurdo». Per Eudosso è possibile calcolare il valore della circonferenza attraverso il calcolo del perimetro di un poligono che vi è iscritto e che ha i lati «piccoli a piacere». Insomma, Eudosso sembra dirci che la circonferenza è il valore limite di un poligono con innumerevoli lati. Di un poligono che, al limite, ha un numero infinito di lati.
È raffinando il metodo di Eudosso che, più tardi, in piena epoca ellenistica, Archimede giunge a proporre un metodo – calcolo del valore limite dei perimetri di poligoni che sono iscritti e che circoscrivono un cerchio – che non solo gli consente di ottenere il valore più preciso mai fino ad allora raggiunto di π (3,142857), ma un metodo che resterà il migliore in assoluto per un paio di millenni.
Non è che con Archimede il tentativo di migliorare il calco di π viene meno. Al contrario, è proprio inseguendo questi tentativi che ci accorgiamo, noi Europei, di essere stati gli ultimi ad aver scoperto la scienza. Compresa la scienza di π.
Il calcolo di un numero crescente di decimali continua infatti in India, dove Brahmagupta, un matematico nato nel 598 d.C., giunge al valore di 3,162277. Prosegue in Cina, dove Tsu Chung-Chih e il figlio Tsu Keng-Chih, più di un secolo prima, giungono a calcolare un valore di π con sette decimali e pari a circa 3,1415926. Gli Islamici, contaminando le conoscenze ellenistiche con quelle indiane e cinesi, giungono a un valore di π pari a 3,1415 (quello della fatidica data dello scorso anno). Nel 1424 al-Kashi calcola un valore di π con ben 16 cifre decimali.
E gli Europei? Beh, signori, questo è il punto. L’Europa è buon ultimo fra i tre continenti connessi a scoprire la scienza, la matematica avanzata e lo stesso π. Il fatto è che nell’estremità più occidentale dell’Eurasia dominano a lungo i Romani, che poco si interessano di scienza. Come scrive, con ironia neppure toppo velata, Carl Boyer, l’unico contributo rilevante che i Romani danno alla storia della matematica è quando Cicerone giunge a Siracusa, si accorge che la tomba di Archimede (ucciso da un soldato romano, peraltro) è mal messa e ordina che sia ricostruita in maniera degna dell’uomo di cui ospita le spoglie.
Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente il nostro piccolo e marginale continente conosce i secoli bui. Occorre attendere il XII secolo prima che gli Elementi di Euclide vengano finalmente tradotti in latino (dall’arabo). Occorre attendere il XIII secolo perché l’Europa conosca il suo primo matematico creativo (Leonardo Pisano, detto il Fibonacci) e occorre attendere il Rinascimento prima che Archimede e il suo metodo di calcolo di π entrino a far parte a pieno titolo della cultura matematica europea.
A questo punto il piccolo continente accelera. Non facciamo l’intera storia. Ma ricordiamo solo che il francese François Viète non solo calcola, nel 1593, un valore molto preciso di π, con dieci decimali (circa 3,1415926537), ma mette a punto il primo metodo alternativo a quello di Archimede. Sono passati diciotto secoli prima che qualcuno sia riuscito a fare diversamente dal Siracusano. E deve passare ancora un secolo prima che qualcuno riesca a fare meglio sul piano del metodo, ma pagandogli un evidente tributo.
Alla fine del Seicento, infatti, Isaac Newton e Gottfried Leibniz – indipendentemente l’uno dall’altro – mettono a punto due metodi diversi per il calcolo infinitesimale che tanto debbono al metodo di esaustione e al concetto di limite – non esplicitato ma magistralmente adottato da Archimede. Lo stesso Newton mette a punto un metodo per il calcolo dell’integrale di una funzione che gli consente di calcolare i primi 16 decimali di π, commettendo un errore solo sull’ultima cifra. Newton, in quanto a numero di decimali, eguaglia al-Kashi.
Occorre attendere qualche decennio ancora ed il grande Eulero perché π diventi π, e i matematici comincino a indicare con la lettera greca il rapporto tra circonferenza e diametro. Sia detto per inciso, Eulero mette a punto una tecnica per il calcolo veloce di π, sciogliendo le briglie per i «cacciatori di cifre». Questa la progressione: nel 1615 Ludolph van Ceulen ottiene un π con 32 decimali; nel 1702 Abraham Sharp giunge a 72 decimali; nel 1706 John Machin a 100…
Ma lasciamo i cacciatori di cifre ricordando solo che, prima dell’era del computer, il record appartiene a Donald Ferguson che nel 1948 otterrà un valore di π con ben 808 cifre. Oggi i computer pare siano in grado di calcolare i decimali di π in termini di milioni di miliardi. Quello che è importante, almeno per me, non è il numero in sé di decimali ma il modo in cui si succedono queste cifre. È infatti solo nel 1767, pensate, che il francese Johann Heinrich Lambert riesce a dimostrare ciò che a molti ormai appare evidente: il nostro è un numero irrazionale. I suoi decimali si ripetono all’infinito in maniera assolutamente non periodica. Proprio come quella (radice di 2) che era costata la vita al povero Ippaso dopo che aveva dimostrato che la diagonale del quadrato non può essere espressa come rapporto tra numeri interi, come avrebbe voluto il maestro Pitagora, ma è un numero che oggi definiamo illimitato non periodico e che per questo è stato etichettato come irrazionale.
Lambert scioglie, dunque, ogni dubbio sulla natura di π: è come , un irrazionale. E qualcuno già sogghigna: questo la dice lunga sulla natura anche di pi greco (inteso come Pietro Greco, il sedicente scrittore). Ma non è finita. Perché se elevo al quadrato ottengo un numero intero, 2. Ma se elevo al quadrato π ottengo un altro numero illimitato non periodico. Un altro irrazionale. Coriaceo, il nostro.
Il primo a teorizzare l’esistenza di numeri di questo genere, definiti trascendenti, è stato il solito Eulero. Ma è solo Joseph Liouville a dimostrare, nel 1844, che i trascendenti esistono ed è solo il tedesco Ferdinand von Lindemann a dimostrare nel 1882 che π è un numero trascendente. E poi Cantor dimostra che i numeri trascendenti sono «non numerabili» che, se ho ben capito, significa che il loro insieme non è in corrispondenza biunivoca con l’insieme infinito dei numeri interi positivi.
Il succo, almeno per me che matematico non sono, è che π, il mio stalker – il numero che appare quando mi guardo allo specchio – è un irrazionale che rifiuta di farsi normalizzare. Ne devo trarre qualche conclusione?
Quello che mi consola, però, è che è celebrato come nessun altro. Ed è capace non solo di catturare l’attenzione di un giornalista, ma anche di emozionare il poeta. Anzi, la poetessa. Per cui chiudo con il componimento – l’inno – che gli ha dedicato la polacca Wisława Szymborska, premio Nobel per la letteratura 1996.
Sul pi greco
È degno di ammirazione il Pi greco
tre virgola uno quattro uno.
Anche tutte le sue cifre successive sono iniziali,
cinque nove due, poiché non finisce mai.
Non si lascia abbracciare sei cinque tre cinque dallo sguardo,
otto nove, dal calcolo,
sette nove dall’immaginazione,
e nemmeno tre due tre otto dallo scherzo, ossia dal paragone
quattro sei con qualsiasi cosa
due sei quattro tre al mondo.
Il serpente più lungo della terra dopo vari metri
s’interrompe.
Lo stesso, anche se un po’ dopo, fanno i serpenti delle fiabe.
Il corteo di cifre che compongono il Pi greco
non si ferma sul bordo del foglio,
è capace di srotolarsi sul tavolo, nell’aria,
attraverso il muro, la foglia, il nido, le nuvole, dritto
fino al cielo,
per quanto è gonfio e senza fondo il cielo.
Quanto è corta la treccia della cometa, proprio un codino!
Com’è tenue il raggio della stella, che si curva a ogni spazio!
E invece qui due tre quindici trecentodiciannove
il mio numero di telefono il tuo numero di collo
l’anno millenovecentosettantatré sesto piano
il numero degli inquilini sessantacinque centesimi
la misura dei fianchi due dita sciarada e cifra
in cui vola e canta usignolo mio
oppure si prega di mantenere la calma,
e anche la terra e il cielo passeranno,
ma non il Pi greco, oh no, niente da fare,
esso sta lì con il suo cinque ancora passabile,
un otto niente male,
un sette non ultimo,
incitando, ah, incitando l’oziosa eternità
a durare.
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