Uno dei temi che attraversano la mia ricerca, come urbanista e paesaggista, riguarda l’adattamento delle città al clima che cambia. A questo focus di indagine ho dedicato numerose attività progettuali e didattiche in Italia e all’estero, riflessioni e pubblicazioni di varia natura. È un tema che mi appassiona e nel quale vedo il futuro delle nostre discipline, dalla formazione accademica alla trasformazione delle città, soprattutto in riferimento al nostro Paese, che ha dimostrato, più frequentemente negli ultimi due decenni, profonda fragilità e la necessità di stimoli nuovi per ripartire.
L’emergenza climatica ha infatti accelerato il passo delle ricerche specialistiche e di settore e, allo stesso tempo, ha lanciato un allarme a tutte le competenze che si occupano di territorio, dalla pianificazione alla sua manutenzione e modificazione attraverso l’azione integrata del progetto. In altre parole, i cambiamenti climatici pongono una questione di interesse planetario, con importanti ricadute su contesti locali sempre più incerti: condizione che mette sotto accusa i comportamenti e gli stili di vita di una società fragile, una cultura dell’abitare che si è rivelata fallimentare perché ci ha consegnato territori e città incapaci di adeguarsi al cambiamento in atto.
Si stanno delineando nuove traiettorie di indagine lungo le quali trovare occasioni importanti per un rinnovamento disciplinare, propedeutico all’azione e alla realizzazione di un cambio di clima culturale, che il mio ultimo libro, in parte, ha già registrato.
La città adattiva. Il grado zero dell’urban design (Quodlibet Studio, Macerata 2019), è un volume nel quale ho raccolto le riflessioni maturate negli ultimi anni, immaginando una città capace di cogliere la sfida ambientale e di candidarsi ad habitat sostenibile. È questione transcalare e reticolare da affrontare nei tessuti, lungo i telai degli spazi aperti e pubblici, sui singoli manufatti, nei margini dove la mutazione è prossima. Ciò che è in discussione è la forma complessiva della città, il sistema dei valori culturali sui quali costruire un’idea condivisa di sviluppo sostenibile.
Il libro costruisce il profilo della città adattiva, destinata alla prima linea nella lotta contro il mutamento del clima, una città che non intende esprimere un linguaggio estetico sulla base di un modello predefinito; invita a un nuovo rinascimento urbano, lontano da qualsiasi forma di predeterminazione formale e in grado di produrre una flessibilità che abiliti il futuro in tutti i suoi possibili scenari, per costruire città a immagine del mondo.
Ma oggi, alla luce della pandemia in corso, la riflessione sulla città che verrà, si carica di nuovi significati e di nuove urgenze. L’esperienza estrema che stiamo vivendo con la diffusione del Covid-19, aumenta le preoccupazioni e alimenta le riflessioni sul futuro delle nostre vite, del nostro ruolo come architetti, urbanisti e docenti.
Walter Benjamin, nel suo libro Strada a senso unico (Einaudi Editore, Torino 1983), scriveva che «Non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, “moderna” e non abbia creduto di essere immediatamente davanti a un abisso. La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità».
Eppure, sembra che mai nella storia, prima d’oggi, si siano concentrate così tante preoccupazioni e paure di una portata che, probabilmente, solo le guerre mondiali con i loro post drammatici erano state in grado di suscitare. I disastri ambientali e le migliaia di morti causate dal Corona Virus ci hanno posti di fronte a un dovere ormai inevitabile: capire che lo sviluppo che credevamo di aver prodotto si sta rivelando «una diseconomia per l’intera umanità», e che le azioni sull’ambiente riverberano i loro effetti sulla società in maniera drammatica. In altre parole, credo che la sfera ambientale e quella sociale si stiano sempre più sovrapponendo e integrando, e che il nostro futuro dipenderà dalla consapevolezza che conquisteremo rispetto alla loro relazione. La guerra, di cui tanto si parla e si scrive, va combattuta contro la resistenza dei modelli che abbiamo costruito, ovvero contro i caratteri inerziali delle forme solide delle città consolidate. Forme che hanno tradotto, a distanza di tempo, i caratteri della società liquida.
Sembra che il nuovo mondo, inaugurato dal primo Novecento, non voglia morire, nonostante ci si trovi all’alba di un altro necessario mutamento. Come fa notare Bernardo Secchi nel libro La città del ventesimo secolo (Editori Laterza, Bari-Roma 2005), i caratteri del XX secolo si stanno chiarendo in un tempo più lungo: oggi si stanno registrando le mancanze e gli svantaggi delle azioni, dei modelli urbani e degli strumenti messi in atto nel secolo scorso, perché stanno cambiando le condizioni rispetto alle quali, piani, progetti e processi erano stati pensati. Ci stiamo svegliando dall’assopimento scaturito dalle false sicurezze che la modernità ha prodotto e iniettato nel credo dei cittadini.
Di fronte a questi bisogni di cambiamento, una sorta di autopsia urbana è necessaria per comprendere e individuare le traiettorie lungo le quali dovremo muoverci. La diatriba che in questi giorni si sta consumando nel nostro Paese, a proposito della proposta di sbilanciare il futuro verso i borghi e le aree interne, palesa una profonda confusione. Caos prodotto da una errata interpretazione della provocazione di Rem Koolhaas, quando nel 2018 ha raccontato all’Economist la sua visione aggiornata del mondo, immaginando un «rovesciamento del cannocchiale» per un futuro della campagna, lontano dalla città. (Ha fatto seguito la mostra Countryside, The Future organizzata di recente al Guggenheim Museum di New York).
Come ha scritto Edoardo Zanchini sulle pagine di urban.it, «nel nostro continente e in particolare in Italia, il contrario di città non è campagna, deserto come luogo fisico e come solitudine esistenziale, mentre la nostra campagna è antropizzata, è un luogo costruito dall’uomo. Non è la fuga la risposta ai nostri problemi, ma tornare a occuparci del territorio e delle città italiane, oltre le mode e le mostre, per fare i conti con cambiamenti di una scala senza precedenti che troppo poco sono stati approfonditi e compresi».
Parlare di borghi da riabitare è un dovere e una possibilità che noi abbiamo, per costruire un territorio più equilibrato, reinvestendo su un patrimonio e su identità che per molti decenni abbiamo sprecato. Ma le città restano i luoghi di concentrazione della popolazione, delle economie e dei tanti problemi dettati dalla contemporaneità. Lo sviluppo e l’innovazione sono da intendersi come ricerca della resilienza, della qualità ambientale, di nuovi valori e contenuti spaziali. Le città devono restare protagoniste di questo fermento: sono obiettivi da raggiungere conferendo senso, narrativa e usi alle forme sedimentate, trasformando ciò che già c’è in uno spazio abitabile, inclusivo, attrattivo ed ecologicamente performante. L’esistente è il nuovo patrimonio della città contemporanea e pone domande di progettualità differente. È un discorso che riguarda lo spazio domestico, lo spazio a noi vicino, ma anche i sistemi ampi della mobilità, del welfare, gli spazi aperti e pubblici. A partire dal modo in cui stiamo adoperando lo spazio, riducendo le distanze tra le cose e tra le persone, stiamo iniziando a immaginare, anche inconsciamente, una nuova grammatica urbana, per riequilibrare i rapporti tra pieni e vuoti, tra sfera privata e pubblica, tra individuo e collettività. «Costruire il futuro è lavorare dentro i caratteri della città contemporanea modificandoli». (Bernardo Secchi, I futuri della città. Conoscenze di sfondo e scenari, in Dematteis G. et al., I futuri della città. Tesi a confronto, Franco Angeli, Milano 1999).
Da un lato, gli effetti del clima che cambia testimoniano l’obsolescenza dei palinsesti urbani che abbiamo ereditato dal Novecento, incapaci di far fronte agli stress ambientali; dall’altro, la rivoluzione tecnologica, e in special modo dell’informazione condivisa, descritta da Dougkas Rushkoff come «lo shock del presente», sembra ridurre incredibilmente la necessità di occupazione dello spazio fisico e anche il bisogno di specializzarlo: questa nuova «dimensione dell’accesso totale» incide sul bisogno di portarci fisicamente altrove e di interagire con i sistemi materiali della città. (Mosè Ricci, Habitat 5.0. L’Architettura del Lungo Presente, Skira Edizioni, Milano 2019).
Questa esperienza di chiusura forzata, lontani dagli spazi aperti e pubblici della città fuori, sta sottolineando la possibilità di compiere, in uno spazio ristretto, una pluralità di azioni che generalmente svolgiamo al di là delle mura domestiche o dei nostri uffici. Ci stiamo rendendo conto che aumentando le prestazioni dello spazio fisico e ottimizzando l’uso delle tecnologie di comunicazione, si riduce sensibilmente la necessità di spazio specializzato, e che qualcosa di davvero importante potremmo riconsegnarlo alla natura. In altre parole, gran parte del territorio urbanizzato è in misura eccedente rispetto ai bisogni reali e quindi possiamo ripensare le nostre abitudini, a partire da un diverso rapporto tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, dando una maggiore profondità di senso al vuoto che ci circonda.
L’ottimizzazione dello spazio domestico/pertinenziale e la rigenerazione del vuoto in chiave sociale e ambientale rappresentano, dal mio punto di vista, i due principali assi per l’adattamento del patrimonio esistente alle esigenze/urgenze dettate dalla contemporaneità e dagli scenari di incertezza che si prospettano. E come urbanisti, architetti, intellettuali e docenti, siamo invitati a dare un contributo decisivo al futuro, cercando nuovi spazi all’interno di un sistema di politiche che al momento non sembra voler riconoscere il giusto peso alle nostre professioni, ignaro del valore potenziale che la cultura ha nella costruzione di una società migliore.
Un’ultima e brevissima riflessione intendo dedicarla alla didattica: tutti gli ambiti di lavoro e di vita privata sono coinvolti in questo rinascimento urbano che dobbiamo traguardare e perseguire, e la formazione dei giovani è probabilmente un’arma che abbiamo a disposizione per riuscirci davvero: è lo strumento più potente, dentro un progetto generazionale senza precedenti.
Sembra, infatti, che la scuola e l’università possano trarre da questa condizione di difficoltà grandi suggerimenti, per migliorare il flusso delle informazioni e aumentare la ricchezza degli stimoli. In particolar modo, i corsi universitari stanno sperimentando una differente modalità di organizzazione delle lezioni, attraverso interventi di docenti esterni, afferenti ad altre sedi, che per questioni logistiche, di tempo ed economiche, avrebbero difficoltà a spostarsi fisicamente. È un aspetto da analizzare con attenzione, perché non solo può facilitare il confronto, lo scambio di esperienze e aumentare la complessità della formazione, ma potrebbe incidere profondamente sul peso ambientale delle nostre azioni, soprattutto nel lungo tempo: per esempio, sulla riduzione degli spostamenti, quindi sul traffico, sull’uso dei mezzi di trasporto e di conseguenza sull’inquinamento e sullo stress psicofisico della persona. Alla riduzione della fruizione dello spazio aperto per molte attività che possiamo svolgere a distanza – come, appunto, alcune forme di didattica -, può corrispondere un uso diverso del vuoto da dedicare al benessere, al loisir, recuperando un contatto più autentico con la natura.
La sfida che abbiamo di fronte ha pochi precedenti nella storia, ma è anche un grande stimolo, una prova che può davvero testare il nostro ruolo rispetto ad ambiente, economia e società. Dobbiamo fare di questa emergenza un’occasione decisiva per dire al mondo chi siamo, liberandoci di vecchie credenze e riscattando il senso del nostro lavoro, delle nostre passioni al servizio della comunità.