Invasa terra, acqua ed aria, ambizione intensa è anche vivere lontano da qui, nel Quarto Ambiente. Noi umani però non viviamo soli – interagiamo con altre forme di vita – né possiamo replicare quanto fatto qui: occorre pensare ambienti di vita diversi, cambiare mentalità.
Qui, nel nostro pianeta, non è ammessa omologazione: anche il ventennio della seconda stagione dell’International Style si è esaurito (quasi; reduci e nostalgici sono sempre gli ultimi a rinunciare), l’approccio organico si è rivelato vincente. Nelle varie regioni del mondo gli ambienti di vita esprimono le diverse culture, le differenti organizzazioni sociali, la storia che fin qui le ha conformate e le diverse aspirazioni delle singole comunità. Oltre a questi caratteri a-spaziali che individuano ogni contesto, oltre sue alle differenti condizioni climatiche, chi interviene costruendo o trasformando ha come primo compito quello di leggerne gli specifici caratteri spaziali: in senso lato risorse, morfologia e paesaggi naturali o artificiali che siano. Per questo – diversamente da quanto è replicabile è comunque prodotto dall’industria che affina i suoi prodotti attraverso sperimentazioni e prototipi – nel costruire gli ambienti di vita ogni progetto è prototipo, irripetibile.
Nel costruire si evolvono solo gli aspetti immateriali: messe a punto di requisiti, principi, metodologie. Anche per questo progettare impone visione sistemica, non è dominio di competenze settoriali, quindi è azione eteronoma per eccellenza. Per questo non hanno più senso utilitas/firmitas/venustas, triade un tempo idonea a guidare il progettista e sostenere il giudizio popolare. Quando si progetta una singola costruzione o qualsiasi trasformazione di un ambiente di vita sulla Terra, è decisamente più giusto considerare caposaldi del costruire i rapporti con l’Ambiente (questione planetaria), i Paesaggi (connotano le diverse civiltà e culture) e la Memoria (identifica ogni singolo luogo). Perché l’immateriale è più importante del materiale, le relazioni fra le parti prevalgono su singoli componenti e singole costruzioni: negli ambienti di vita terrestri è il non-costruito che ha maggiore importanza: sono gli spazi aperti quelli che aggregano e danno senso ad una città.
Significativa la differenza di approccio ad un habitat lunare o su altri pianeti. Sulla Luna o su Marte gli esseri umani non possono vivere se non in spazi chiusi, confinati, attentamente trattati. A meno di non essere dotati di tute spaziali sigillate o comunque di abiti particolari, non sono in grado di sopravvivere ai rapidi e fortissimi sbalzi di temperatura, non sono in grado di respirare se manca l’ossigeno. Le città nel Quarto Ambiente saranno profondamente diverse dalle nostre, a meno che non si pensi ad immense cupole geodetiche nella scia di quella proposta nel 1960 per Manhattan da Buckminster Fuller che, come lui allora calcolava, avrebbe quasi azzerato le perdite d’energia per riscaldamento ed aria condizionata, quindi si sarebbe ripagata in pochi anni.
Peraltro un insediamento sul nostro satellite o su altri pianeti deve essere concettualmente diverso da quanto si continua a fare sulla Terra dove «singole cellule si sviluppano senza regole e senza ritegno avendo perso l’informazione che dovrebbe tenerle insieme», proprio come nelle patologie neoplastiche (Lorenz, 1973). Quindi insediamenti anche profondamente distanti dalla proposta per la «colonizzazione del pianeta Marte» lanciata un paio di anni fa da Elon Musk, perfino lui incapace di affrancarsi da negativi abituali modelli di occupazione del suolo. Sulla Luna, su Marte, l’approccio progettuale può essere diverso. Dove la forza gravità è ancora meno di 1/6 di quella terrestre, è agevole porsi l’obiettivo del minimo impatto al suolo, evitare sbancamenti, indagare il sottosuolo: definisco questo, approccio archeologico perché teso a non intaccare quanto non ancora si conosce, e perché soprattutto evita di riportare altrove le banalità che qui, sulla Terra, spesso ingombrano i territori.
Sono ragionamenti approfonditi nell’ampio gruppo interdisciplinare del Center for Near Space, centro di competenza dell’Italian Institute for the Future che negli ultimi anni ha cominciato con affrontare il progetto di uno SpaceHub (Le Carrè Bleu, 2017) per cento abitanti che prenda il posto dall’attuale Stazione Spaziale Internazionale (ISS): progettare una stazione spaziale richiede un terzo approccio, profondamente diverso dai due precedenti. In una stazione spaziale tutto è artificio, la natura è fuori. Si tratta di unità isolate, autonome, per le quali ha ancora senso la triade vitruviana Utilitas/Firmitas/Venustas del tutto inconcepibile ormai qui da noi, in un mondo che ha grande bisogno di relazioni, mai più di autonomie.