Il voto restituisce un Paese diviso e oscillante con una non vittoria dei repubblicani in discesa e una non sconfitta dei democratici in ascesa
Le elezioni di metà mandato ci restituiscono un’immagine incerta degli Stati Uniti. Non si è verificata l’onda rossa repubblicana pronosticata dai sondaggi e da molti commentatori, ma il GOP avrebbe prevalso alla Camera dei rappresentanti (la battaglia è ancora in corso) con una maggioranza ridotta, mentre per il Senato si profila una limitata maggioranza dei democratici (50 a 49 ma la vicepresidente Kamala Harris può votare, i democratici hanno 51 voti).
Per il risultato finale occorrerà attendere il ballottaggio di dicembre in Georgia.
Ma negli ultimi giorni i democratici hanno vinto sia in Arizona sia nel Nevada. Trump viene ridimensionato e tra i repubblicani crescono i dubbi sulla sua leadership. In conclusione, quella repubblicana forse si può definire una non vittoria con il partito in discesa. I democratici hanno subito l’avanzata del GOP alla Camera, ma si sono assicurati una risicata maggioranza al Senato. Hanno superato le aspettative pessimistiche della vigilia e hanno segnato non pochi punti a loro vantaggio. Per loro forse si può parlare di una non sconfitta ma in ascesa.
Dal Senato passano le conferme per le nomine dell’esecutivo e le scelte per i giudici federali senza contare il peso che ha per le commissioni d’inchiesta (i repubblicani pensavano di accusare Biden per il ritiro dall’Afghanistan). Inoltre, restano democratici stati che i repubblicani speravano di vincere: New Mexico, Wisconsin, Michigan e persino il Kansas. In Michigan i democratici hanno conquistato congressi statali che non controllavano da molto tempo. Sembra che, tranne in Florida, il voto ispanico sia andato più ai democratici che ai repubblicani.
L’America, quindi, si conferma divisa. La polarizzazione resta e la democrazia americana vive un conflitto permanente, ma dal voto emergono inediti segnali di distacco dall’estremismo politico. La nazione sembra offrire di sé un volto composito, contraddittorio. Forse una parte dell’opinione pubblica comincia a porsi il problema di un dopo la polarizzazione. Ma occorrerà tempo per capire i flussi di voto e quale sarà l’evoluzione politica.
La regola storica che le elezioni di midterm penalizzano il presidente in carica e il suo partito, è stata confermata. Fino a un certo punto: l’esito si presta a letture differenti, appare molto più bilanciato delle attese, costringe a interpretare la regola storica con categorie flessibili. Sullo sfondo campeggia la questione degli Stati Disuniti d’America, ma gli elettori forniscono anche indizi di movimenti da decifrare. La polarizzazione da una parte tende a calcificarsi, a produrre un irrigidimento nelle convinzioni dei cittadini; dall’altra ci sono indizi di un ripensamento in alcuni settori sociali sia conservatori sia progressisti.
Da tempo il sistema democratico americano sembra immerso in una campagna elettorale permanente, all’interno di un ciclo elettorale continuo, che complica l’elaborazione di progetti di lungo termine, dato che i due partiti sono concentrati nello spostare quei voti limitati che possono decidere la competizione. Ma nel voto dell’8 novembre sembra affiorare qualche preoccupazione tra i cittadini per questa radicalizzazione instabile. È come se tra gli elettori spuntasse un bisogno di stabilizzazione. L’estremismo, del resto, non è una prerogativa solo della destra. Nel momento in cui c’è stato l’arrembaggio populista, l’area di sinistra vicina all’ottantenne Bernie Sanders alimenta una campagna web critica verso la ricandidatura di Biden a colpi di #DontRunJoe. Questa polarizzazione ormai sembra rappresentare un problema per molti che cercano soluzioni più moderate. Quella che esce dalle urne appare come una swinging America (una America oscillante) tra polarizzazione e stabilizzazione.
È il tempo delle maggioranze insicure, come recita il titolo del libro di Frances E. Lee, professoressa di scienze politiche a Princeton, Insecure majorities, perché l’esito di un voto viene ogni volta rovesciato in una sequenza elettorale vertiginosa, che invece di favorire una cooperazione bipartisan sui grandi temi, alimenta una competizione continua. L’America disunita vive un equilibrio instabile, precario tra i due partiti in lotta, che però si traduce per il Paese in uno stallo strategico. Ogni elezione non annuncia un mutamento duraturo, credibile nella politica americana, ma solo temporaneo, provvisorio. Ogni volta si apre un nuovo fronte interno al sistema politico o interno ai partiti. La lotta partigiana così prosegue senza altra direzione che battere l’altro e sembra destinata a rimanere una costante che logora la vita pubblica. Il voto è diventato una questione esistenziale, perché la vittoria dell’altro spaventa. Questo riflesso sta probabilmente anche alla base della non sconfitta dei democratici.
Del resto tra i non vincitori repubblicani i giochi non sono affatto chiusi. Donald Trump non è uscito come un trionfatore dal voto. Anzi alcune analisi di area repubblicana parlano apertamente di disfatta. The Donald ha sostenuto, e persino finanziato, candidati estremisti, che si vantavano di avere il suo sigillo. È vero che una quota di candidati radicali entrerà al Congresso, ma non basta per offrire a Trump un trampolino che possa catapultarlo tra due anni alla Casa Bianca. Nella corsa per i governatori i suoi candidati hanno ottenuto risultati mediocri, inferiori alle attese. Trump cioè ha perso l’occasione per sferrare un blitz per conquistare il potere a Washington. Cade la strategia di imporre la sua egemonia prima sul partito poi sul Paese. Invece è in ascesa il governatore della Florida, Ron De Santis, che ha vinto con un margine di 20 punti sul concorrente democratico e ha sfondato in aree che tradizionalmente votano gli avversari.
Sembra lui il l’unico vero vincitore repubblicano. Non a caso Trump già lo attacca, minacciando di rivelare dossier inquietanti. Nel partito repubblicano si potrebbe aprire una resa dei conti tra l’ala estremista e quella più moderata. Trump appare divisivo pure a destra. De Santis potrebbe emergere come una figura di candidato più unitario per quanto schierato su posizioni di destra. Il governatore del resto ha dichiarato: «Non solo abbiamo vinto le elezioni, ma abbiamo riscritto la mappa politica» riferendosi allo storico risultato in distretti democratici come il Miami-Dade o Palm beach. In stati importanti come l’Ohio il repubblicano JD Vance, che ha vinto, non è un trumpiano così come il riconfermato governatore della Georgia, Brian Kemp. Il voto, quindi, non ha materializzato la definitiva trumpizzazione del partito repubblicano, come molti prevedevano. Semmai ha ripreso quota l’ala del partito non Maga (dallo slogan di Trump: «Make America Great Again»).
La polarizzazione della società ha costruito un’inerzia politica nell’elettorato che vota sempre la propria parte e considera gli altri nemici pericolosi. Un fenomeno però che non riguarda solo i repubblicani. In una intervista al New York Times, Nancy Pelosi, presidente democratica della Camera, ha dichiarato: «Non riesco a credere che qualcuno possa votare per queste persone». Ma questa convinzione è diffusa anche tra gli elettori: alcuni studi rivelano che molti matrimoni avvengono tra persone con idee politiche simili, si sceglie di vivere in quartieri che votano in modo simile al proprio. Le due Americhe si riconoscono sempre meno.
Questa divaricazione ha posto al centro delle scelte elettorali dei cittadini l’identità, il riconoscimento che chiedono, il bisogno di affermare il proprio sé. Nella società americana sembra radicata una concezione della identità incardinata sul noi-noi, vale a dire su una identità ripiegata su sé stessa, che stabilisce confini invalicabili, che detta e impone (come per l’aborto) modelli di umanità. È stata la destra populista americana a investire per prima su una identità separatoria, oppositiva. I democratici in genere sembrano posizionarsi verso un’identità costruita sulla dialettica noi-altri, in cui il noi si afferma in una interazione complessa con gli altri che si differenziano. Ma questa scelta ha favorito la destra populista.
I cambiamenti economici, con la globalizzazione che ha trasferito all’estero molte produzioni e avviato la trasformazione del sistema economico, i mutamenti sociali che hanno investito la famiglia, la sessualità, il genere, le etnie, hanno fatto da incubatore a un rancore sociale profondo. Interi ceti hanno patito il disagio di sentirsi perdenti, nonostante pensassero di essere stati loro «a fare grande questo paese». E hanno cominciato a rivendicare l’orgoglio di essere lavoratori americani, bianchi, cristiani, devoti alla famiglia. Che vogliono essere riconosciuti e ricompensati. È così scattato un contraccolpo culturale, hanno spiegato due studiosi nel libro Cultural backlash, Ronald Inglehart e Pippa Norris. La risposta è stata «una reazione contro il cambiamento culturale di segno progressista».
La domanda di populismo, quindi, non avrebbe solo basi economiche, legate alle diseguaglianze che si sono acuite, ma avrebbe una motivazione identitaria ed emozionale. L’impatto della «rivoluzione silenziosa» dei valori, a partire dalla fine degli anni Settanta, ha condotto le nuove generazioni a favorire in politica temi come il cosmopolitismo, il multiculturalismo, l’ambientalismo, i diritti umani, l’uguaglianza di genere, sessuale, etnica. C’è stato «un contraccolpo controrivoluzionario» che ha coinvolto soprattutto gli uomini bianchi, più anziani e meno istruiti, che rifiutano «la marea montante dei valori progressisti» e si oppongono allo «spodestamento delle norme familiari tradizionali». Donald Trump è stato l’imprenditore politico ha saputo trarre profitto dal risentimento di chi ha perso status e reddito e si sente estraneo ai valori dominanti nel proprio paese. E non vuole sentirsi discriminato in casa propria.
È la questione identitaria che ha spinto molti elettori a votare per paura della vittoria dell’altro, a fare così del voto una questione esistenziale, al punto da segnare una affluenza alta alle elezioni. Tuttavia, questo riflesso ora sembra avere favorito i democratici. Biden e Obama sono riusciti a mobilitare parte del loro elettorato, e a evitare una sconfitta annunciata, proprio in virtù dell’appello all’identità democratica contro gli altri, i repubblicani che minacciavano di sfondare le trincee.
Trump e la sentenza della Corte Suprema hanno posto gli americani di fronte alla possibilità che la destra riuscisse a imporre un ordine dei valori conservatore, che sostituisse quello dei diritti e della pari dignità. Per questo Biden e Obama hanno lanciato l’allarme: è in gioco, hanno detto, il sistema democratico. E molti elettori, anche i giovani (anche se più o meno in linea con le altre elezioni), hanno risposto. Non a caso, dopo il voto, il presidente ha osservato: «È stato un buon giorno per la democrazia, quindi un buon giorno per l’America».
Il voto, quindi, ha confermato la tendenza alla polarizzazione, ma ha messo in evidenza le incertezze dell’America, ha posto il tema di un possibile dopo. La contraddizione viene evidenziata dal disallineamento tra l’agenda dei cittadini e l’agenda dei partiti. La scelta dei candidati non solo per il congresso e i governatori, ma per molte altre cariche statali, ha mostrato che elettori di destra e di sinistra hanno operato una distinzione e compiuto una selezione. E in genere hanno premiato i moderati, sconfessando Trump. Al centro delle preoccupazioni di molti americani non c’è la tenuta della democrazia, ma l’inflazione, il costo della benzina, l’annunciata recessione economica. Preoccupano la Cina e la guerra in Ucraina anche se negli Usa se ne parla meno che in Europa. A dominare con l’economia sono temi come la criminalità, che ha avuto una recrudescenza negli ultimi tempi, l’immigrazione, e soprattutto i diritti e l’aborto dopo la sentenza della Corte Suprema. L’aborto e le donne in particolare sembrano avere penalizzato non poco i repubblicani. La sentenza ha influito negativamente e anche elettori conservatori non la condividono. Nel Kentucky repubblicano ha vinto il referendum a favore dell’aborto. In Michigan non solo i democratici hanno guadagnato voti, ma è stata approvata la proposta di inserire il diritto all’aborto nella Costituzione dello Stato. Su questo tema c’è stato un chiaro disallineamento dei repubblicani con i cittadini.
Per i democratici invece l’economy first ha costituito un problema: parte degli elettori ritiene i repubblicani in grado di gestirla meglio dei democratici. Sembra poi chiaro che i democratici abbiano sottovalutato il tema della sicurezza e forse l’abbiano persino alimentata a causa delle campagne della sinistra del partito per ridurre i fondi alla polizia (defund the police) dopo le uccisioni da parte di agenti di alcuni cittadini neri.
In Usa si dice che le elezioni hanno conseguenze. E un congresso in cui prevale il partito rivale in una delle due Camere porterà gli Usa verso un nuovo caso di governo diviso, un assetto che può provocare lo stallo dell’agenda legislativa. Il controllo democratico del Senato, tuttavia, attenua questo problema. Nello stesso tempo Biden, come gli altri presidenti che avevano un Congresso non del tutto amico, tenterà di contenere l’ostruzionismo dei repubblicani sia con il ricorso ai poteri di veto, ma soprattutto con gli ordini esecutivi. Governerà di più attraverso decreti presidenziali, che sfuggono al controllo parlamentare, ma che pongono problemi costituzionali.
Il disallineamento parziale delle agende dei cittadini rispetto a quella dei partiti provoca conseguenze sistemiche che rendono più difficile assumere decisioni di lungo periodo. Biden è riuscito a varare un rilevante piano di interventi pubblici per l’energia e l’ambiente, che probabilmente ha soffiato sull’inflazione. I repubblicani cercheranno di ostacolarlo ma non hanno la forza per ridimensionarlo. D’altra parte, un’altra regola delle elezioni di midterm è che perderle non significa che il presidente perderà poi le presidenziali, come dimostrano nel campo democratico i precedenti di Bill Clinton e Barack Obama.
Del resto, la fragilità della democrazia viene messa alla prova anche dal fatto che Trump è comunque riuscito a far eleggere suoi candidati che sostengono la big lie, la bugia delle elezioni truccate a favore di Biden. La narrazione trumpiana delle elezioni rubate approda al Congresso e potrebbe influenzare le sorti della inchiesta sull’attacco a Capitol Hill o sui documenti riservati trovati nella villa di Mar-a-Lago. Il trumpismo, per quanto non abbia sfondato, può ancora incidere nella nuova fase della democrazia americana. Nel partito repubblicano si apre una complessa e combattuta, fase politica e il suo destino sarà condizionato da Trump.
Biden si ritrova con una economia solida che incontra alcune difficoltà, anche se la percezione dei cittadini è probabilmente peggiore del reale andamento (la disoccupazione, per esempio, è al 3,5 un dato molto basso). Dovrà governare un sistema politico in cui l’opposizione avrà una maggioranza (risicata) alla Camera come nei primi due anni. La nazione è polarizzata ma anche incerta. Nella swinging America il livello della competizione non si abbasserà. Le incertezze del futuro resteranno alte.