Era la primavera del 2010. La ricordo lattiginosa, sonnolenta, in un pomeriggio a Parigi. Nella sua piccola casa di Rue de l’Université Antonio Tabucchi camminava a piedi scalzi e fumava ragionando su quale dovesse essere il testo di chiusura della raccolta a cui stavamo lavorando insieme, Viaggi e altri viaggi. E pescò un suo articolo uscito su la Repubblica nel 2001, allora intitolato Le ragioni dei senzaterra. Le prime righe descrivono il pianeta su cui siamo nati: solido irregolare subsferico dotato di schiacciamento ai poli. Da questa descrizione oggettiva, fa affiorare la voce di un essere umano che si rivolge a un «fratello astronomo». Per dirgli che pure lui vive sul pianeta in questione, e tuttavia è un Senzaterra. Il fratello astronomo risponde al «piccolo uomo» che i padroni della Terra non hanno previsto per lui uno spazio decente: hanno previsto solo un minuscolo buco, «un minuscolo buco di terra che ti risucchierà e ti ospiterà nel suo nulla, come un buco nero».
Ebbi ancora una volta, da lui, una smagliante lezione implicita: Tabucchi sceglieva di mettere in coda a un libro che raccoglieva i suoi scritti e racconti di viaggio (aveva viaggiato in lungo e in largo nei cinque continenti) un testo su chi non ha niente, su chi – pur avendo cittadinanza biologica sul pianeta – non ha i diritti che altri possono vantare, è condannato alla invisibilità, all’umiliazione e spesso anche al silenzio. Vorrei essere più chiaro: avevamo messo in sequenza, aggiustato, corretto le testimonianze personali di una sua grande sfida all’Ignoto («l’ignoto ci spia sempre»), avevamo ricostruito un atlante mobile di avventure emotive e intellettuali, in qualche modo un lusso; e Tabucchi ci teneva a chiudere con un «gioco del rovescio», gettando sull’insieme, sul mosaico una piccola ombra, suggerendo al lettore che c’è viaggio e viaggio. Viaggi veri, viaggi presunti, viaggi immaginati, viaggi dello spirito, sì, certo. Però ci sono anche non-viaggi – esseri umani che restano ostaggio del loro buco simile a un buco nero – e viaggi disperati, i viaggi di chi, svegliandosi senza terra, va cercandone un’altra. Fratello astronomo, perché nessuno mi vede? domanda il Senzaterra. Ti sembra possibile, fratello astronomo, tu che conosci l’Universo?
Il tratto civile di Tabucchi si nutriva di domande come queste. La responsabilità della voce e dello sguardo di uno scrittore significava per lui occuparsi di coloro di cui non si occupa «nessuna istituzione, civica, politica, amministrativa». Così, più volte e in circostanze diverse si è trovato a esplorare il mondo degli invisibili, quelli che «guardiamo senza vedere». Fare la differenza significa, intanto, raccontare le loro storie. Scolpire una verità singolare, staccarla da una massa informe, genericamente etichettata; opporre al gelido numero, alla prepotenza della statistica una dimensione emotiva.
Ricordate il signor Gradgrind di Tempi difficili, il grande romanzo di Dickens? Un uomo concreto, «un uomo di fatti e calcoli». Una specie di astronomo che, in un osservatorio privo di finestre, volesse «organizzare l’universo stellato col solo ausilio di carta, penna e inchiostro», senza gettare lo sguardo sugli esseri umani che gli brulicano attorno, si compiace «di tracciare i loro destini su una semplice lavagna, cancellando via le loro lacrime con un unico pezzetto di spugna sudicia». Ma la letteratura è l’esatto contrario di ogni statistica. La letteratura è il contrario del generico.
In un piccolo libro, il «reportage di un reportage» intitolato Gli Zingari e il Rinascimento. Vivere da Rom a Firenze (1999; ora reperibile nell’edizione Piagge), Tabucchi esplorava un campo nomadi, cercando di ascoltare, di raccontare storie per smontare i pregiudizi. Mentre la «culla del Rinascimento» si dedicava a sfarzi modaioli, le forze della destra raccoglievano firme per cacciare i nomadi, Tabucchi insisteva nel suo viaggio controcorrente: «Il mondo è vasto, Liuba, e molto vario. E innumerevoli sono gli aspetti della Realtà che uno scrittore può descrivere. Io ho pensato che, senza andare troppo lontano, forse potevo dare un’occhiata a una realtà che mi sta accanto. Perché a volte questa realtà, che spesso guardiamo senza vedere, riproduce, magari su scala ridotta, certe macroscopiche sciagure del globo che vengono esibite in televisione: terremoti, guerre, violenze, genocidi. Può essere il signore insospettabile che ci saluta ogni mattina in ascensore e che all’insaputa di tutti gli inquilini sevizia la bambina dell’appartamento accanto al nostro, il clochard che muore di freddo sul marciapiede di fronte al palazzo della nostra città dove ha luogo il Ballo in Maschera, o un gruppetto di Zingari costretti a vivere come animali appena fuori dal centro.»
Questo Tabucchi integralmente politico era soprattutto un cittadino e uno scrittore capace di formulare domande semplici e incandescenti. Abbatteva ogni prudenza, e attaccando gli inattaccabili (Ciampi da presidente della Repubblica, Schifani da presidente del Senato) mostrava come il cosiddetto impegno fosse tutt’uno col resto del suo lavoro di scrittore: «Per me, essere impegnati significa prima di tutto essere impegnati con sé stessi, il che significa essere sinceri».
Il punto di vista anarchico-socialista dei primi romanzi, il peso della lezione della Resistenza, la battagliera stagione anti-berlusconiana. Ha scritto Paolo Mauri: «In una lettera a Adriano Sofri, nella quale discuteva un articolo di Eco sul compito degli intellettuali, che devono star zitti se non servono a nulla, Tabucchi concludeva di voler vivere “nel mio oggi e nel mio ora: nell’Attuale”, stando dunque tutt’altro che zitto».