Tavernier e il provincialismo dei media italiani

Bertrand Tavernier è morto giovedì scorso, 25 marzo, nel giorno in cui si celebra il Dantedì, in cui – questa volta in particolare vista la ricorrenza dei 700 anni della morte del poeta – il mondo della cultura è impegnato attorno alla Commedia e al suo significato attuale. Forse per questo la scomparsa del regista francese non ha richiamato molta attenzione da parte dei media. Una notizia, buttata lì nei telegiornali, qualche articolo sui quotidiani del giorno dopo, in evidente forma di coccodrillo, riassunto un po’ burocratico della carriera, senza particolare partecipazione.

L’idea di inserire uno dei tanti suoi bellissimi film nel palinsesto serale non ha neppure sfiorato le programmazione televisiva, neanche quella delle reti tematiche dedicate al cinema. Anche nell’analisi della sua vasta produzione non sono mancati approcci frettolosi, discutibili, destinati a mettere in evidenza alcuni titoli, come La morte in diretta per l’anticipazione del tema del voyeurismo televisivo o Round Midnight per la componente jazzistica, gettando in un confuso calderone il ricordo di altre opere straordinarie.

Così è rimasto sepolto in un rapido elenco un gioiello come Una domenica in campagna, un film che nella sua ambientazione primonovecentesca riesce a rappresentare con deliziosa leggerezza l’incomunicabilità tra la cultura borghese e le avanguardie artistiche e femminili del tempo.

Mi ha molto sorpreso che una critica, come quella italiana di oggi, affamata di aneddoti e di rivalutazioni delle avventurose vicende del cinema popolare non sia stata attratta dalle incredibili storie che ruotano attorno alle riprese di Eloise, la figlia di D’Artagnan affidate in un primo tempo a Riccardo Freda e poi passate a un riluttante Tavernier, per un capriccio di Sophie Marceau (così pare).

Ma il peccato più grave è un altro. È quello è di non aver saputo mettere nel giusto rilievo, che è quello che si deve a un assoluto capolavoro, un film come La vita e nient’altro. Con la narrazione asciutta della terribile impresa del capitano Dellaplane, che nella desolata piana di Verdun cerca di identificare i soldati morti nella più sanguinosa battaglia della Prima guerra mondiale e di restituirli alle famiglie, La vita è nient’altro raggiunge uno dei punti più alti della storia del cinema antimilitarista.

La sua contrapposizione tra la tragedia dei morti comuni e la ricerca di un simbolico milite ignoto da consegnare alla retorica patriottarda rappresenta una pagina indimenticabile nel ricco filone cinematografico ispirato dalle vicende della grande guerra. La sua denuncia dell’assurdità della guerra vista lateralmente, nelle conseguenze, nella dolorosa normalizzazione del dopo, segue un percorso originale che pone La vita e nient’altro allo stesso livello di un classico come La grande illusione.

Qualche anno fa una sera mi trovavo a Nizza e vidi che un cinema d’essai proponeva una serata assai singolare (sì! con dibattito): si proiettava un documentario-intervista a Tavernier in cui il regista raccontava il suo rapporto con il cinema, la scoperta con i film visti nel collegio religioso in Normandia dove trascorse la sua adolescenza, i registi ammirati, le opere che l’avevano ispirato, con non poche sorprese per una ricostruzione critica della sua carriera. Quel documentario è tuttora inedito in Italia, la scomparsa del regista sarebbe stata l’occasione per mostrarlo anche al pubblico italiano e il modo migliore per ricordare un autore che fu anche uno studioso. Ma l’idea di cinema diffusa nel mondo dei media italiani è troppo provinciale per uscire dalla rotta Cinecittà-Hollywood.

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