Parliamo di telelavoro e lavoro agile. Due modalità di lavoro che non hanno lo stesso statuto giuridico, ma hanno varie similitudini operative. Per aprire la riflessione, appare opportuno partire da un dato certo che le unisce: sono entrambe attività da svolgere da casa con l’ausilio di tecnologie telematiche.
L’apparente similitudine e la sostanziale diversità.
Come si sa, sin dagli anni ’90 il Telelavoro è stato promosso anche in Italia soprattutto per il raggiungimento di due obiettivi fondamentali: il disinquinamento che, in effetti, poteva essere favorito dallo snellimento del traffico verso i posti di lavoro, e la possibilità per le donne di non perdere il lavoro in gravidanza o con bambini piccoli. In tanti ci siamo interrogati sul tema, Mimmo De Masi e Patrizio Di Nicola tra gli altri, e oltre a fare ricerche, compilare una nutrita bibliografia nazionale e internazionale, ci siamo confrontati con giuristi e sindacati su questioni quali la convenienza per i datori di lavoro o la tutela per i lavoratori, e, per le donne, sull’efficacia della cosiddetta azione positiva o l’esito costrittivo del ritorno tra le mura domestiche. Di fatto il cambiamento del modo di lavorare implicava che i datori di lavoro, per assicurarsi la produttività, si dotassero di nuove competenze per il controllo a distanza, attraverso le tecnologie informatiche. Il cambiamento investiva anche nuove tutele per un lavoro che presentava tutti i caratteri della flessibilità, della lontananza dai luoghi e dai tempi comuni ad altri lavoratori, e soprattutto dell’isolamento.
Già al tempo del telelavoro, quindi, si vedeva come la possibilità di svolgere alcune mansioni in remoto fosse misurata sulla loro tele-lavorabilità, essendo telelavorabili quelle che coinvolgevano soprattutto lavori d’ufficio, quindi, white-collar workers. Ci sono state resistenze da parte dei datori di lavoro perché, abituati da sempre al controllo con gli occhi, la distanza rendeva difficile quelle azioni di rafforzamento del senso di appartenenza all’impresa, che favoriva appunto la produttività del lavoro. Anche i sindacati nutrivano perplessità, perché le tradizionali tutele collettive erano misurate sugli esiti produttivi di un collettivo sul posto di lavoro, e non sul singolo, e, quindi, non sapevano gestire la rappresentanza di lavoratori singoli, peraltro talvolta ideologicamente paralleli alla classe operaia.
Insomma il telelavoro non conveniva quasi a nessuno e la sua diffusione è apparsa limitata. Oggi invece il lavoro da casa si è diffuso in Italia in maniera sproporzionata per l’emergenza da coronavirus. Si chiama però Smart Working o, traducendo quest’anglicismo, Lavoro agile, perché si fa da remoto, e non necessariamente da una postazione fissa. È un lavoro svolto a distanza, quindi, che non rispetta i parametri di quella produttività controllata con gli occhi. In realtà, lo scenario lavorativo è ora quello che poco meno di 10 anni fa ci ha raccontato Melissa Gregg, una bravissima analista dei nuovi lavori, nel suo libro Work’s Intimacy. L’autrice ha scritto di un mondo in cambiamento, dell’impatto delle tecnologie su questo cambiamento o del loro ruolo, ha messo in scena i lavoratori che si adattano al cambiamento, e soprattutto come si adattano.
Sono coinvolti, ovviamente ancora una volta, i white-collars workers, per rimanere nel linguaggio tradizionale, operatori e professionisti, come oggi è meglio chiamarli. Sono soprattutto giovani donne e giovani uomini, che sono per lo più nell’economia dei lavoretti, e fanno lavori nuovi, autonomi, creativi, la cui produttività è impossibile da ingabbiare in un posto o in un tempo eterodiretto. Anzi, di flessibile e autonomo c’è quasi tutto, dal posto flessibile ai tempi autonomi. Le tecnologie della comunicazione si accompagnano e certamente accelerano il passaggio d’epoca, che si rivela essere il passaggio dall’eliminazione delle barriere famiglia/lavoro ad uno spazio volatile che ha un tempo volatile e che non ha niente di solido se non nelle tecnologie stesse e nelle strutture architettoniche che vanno sotto il nome di casa ma che, come si è detto, possono anche non identificarsi con il luogo domestico. La scena del lavoro agile è quella dello spazio senza confini e del tempo senza limiti. In un certo senso sembra occupata soprattutto dal genere femminile, non le donne ma le qualità del genere femminile, le emozioni che fanno parte della quotidianità della vita. Non tutta la scena è così ma una gran parte sì.
Se guardiamo al versante di chi, come il datore di lavoro, deve controllare il lavoro e misurare la produttività, i parametri riguardano la valutazione dei risultati, in termini di prodotti e servizi, delle performance delle competenze, anche delle capacità relazionali, come dire le competenze soft. Non c’è dubbio che il lavoro agile possa costare meno in termini di spazio da gestire, con tutti i servizi connessi, come il Welfare aziendale o le mense, anche nelle piccole imprese, ma è da dire che la fidelizzazione agli obiettivi produttivi di un qualsiasi datore di lavoro non si basa più sul senso di appartenenza ma sulla valorizzazione delle competenze hard e soft, delle capacità di gestione autonoma e responsabile degli strumenti tecnologici e sociali di lavoro.
Dal versante dei lavoratori, alcune recenti ricerche sul lavoro agile, e mi riferisco specie a quelle condotte da ricercatori delle Università del Nord Italia, hanno rilevato che gli home workers fanno registrare performance migliori rispetto ai lavoratori che si recano quotidianamente sul posto di lavoro. Sembrano avere minore stress, ma in questo caso, sono soprattutto gli uomini e anche i Millenials che, a differenza delle donne generalmente impegnate nei lavori domestici di cura, legano il lavoro da remoto alla maggiore autonomia e alla maggiore responsabilità, specie laddove queste siano riconosciute e ricompensate. Come si intuisce, quindi, sono i giovani ad accogliere positivamente le nuove forme di lavoro, molto più pronti a sostituire la centralità del lavoro nella vita con una identità mobile, costruita sulla toccata e fuga in termini di spazio e di temporalità. Sembrano quasi in simbiosi con le tecnologie mobili e con i lavoretti che si spostano che finiscono che ricominciano, talvolta molto diversi da quelli precedenti. Sono più pronti a un lavoro agile, che è anche networking, processuale, a continua creazione di traiettorie di lavoro e di vita.
Certamente nel lavoro agile e confinato nel remoto individualizzato, in questo lavoro volatile, anche le dimensioni della condivisione, della reciprocità, della socialità, dell’amicizia sono volatili e mantenute per un certo tempo proprio dai dispositivi tecnologici con cui si pratica il lavoro. Chissà se la durata del tempo vince sulla contingenza dello spazio rispetto alla longevità di quei sentimenti che non hanno avuto una solidità pre-virtuale. È materia sindacale, ma ovviamente di un sindacato rinnovato nelle sue basi organizzative della rappresentanza, quella di costruire tutele per chi svolge lavoro agile, perché avvenga il riconoscimento delle competenze hard e soft, dell’autonomia e delle responsabilità, e forse, perché no, della condivisione, della socialità e della solidarietà, quei sentimenti da incentivare anche se solo nella contingenza del tempo e dello spazio.