Lo scrittore spagnolo Javier Marías è morto ieri, all’età di 70 anni. Più volte il suo nome è stato accostato al premio più prestigioso della letteratura, il Nobel. Nel corso della prossima edizione di Lector in fabula (Giudizio Universale, si terrà a Conversano dal 19 al 24 si settembre) con Paolo di Paolo partiremo proprio dall’ultimo romanzo di Marías, Tomás Nevinson, per parlare di giustizia (Venerdì 23 settembre, ore 21:00. Giardino dei Limoni, Monastero di San Benedetto).
Non leggevo un romanzo così bello come Tomás Nevinson, il migliore tra quelli che Javier Marías ha pubblicato, da Le Correzioni di Jonathan Franzen.
«La letteratura prima di tutto è un piacere come il sesso. Ma è anche una forma di conoscenza. Come il sesso. Di sé stesso e degli altri», ha detto Javier Cercas che con Marías rappresenta una delle punte di diamante della narrativa spagnola e mondiale.
Marías costringe ad approfondire e a confrontarsi con sé stessi e in questo confronto, una sorta di combattimento fino all’ultima parola dell’ultima pagina, si è costretti a mettersi a nudo perché si può mentire a tanti, ma difficile, più difficile, è mentire a sé stessi, anche per questa ragione senza la letteratura non saremmo le persone che siamo.
La scrittura di Javier Marías è una scrittura densa, ricca. Ricca di parole, immagini, pensieri e allo stesso tempo essenziale. Essenziali le parole, essenziali i quadri che immagina per costruire e collocare nel tempo e nello spazio il romanzo.
Marías utilizza tutti gli strumenti dello scrittore, ma lo fa a modo suo.
La reiterazione, per esempio. Non è solo un modo per fissare nella mente del lettore una situazione, un personaggio, quanto piuttosto caratteristiche, particolari utili per comprendere l’azione che si sta svolgendo o il contesto in cui si svolge. Ripetere un concetto già espresso e ripeterlo con le stesse parole per approfondirlo, analizzarlo, cattura l’attenzione perché stabilisce un rapporto a due: da una parte lo scrittore, dall’altra il lettore. Un rapporto che cresce al crescere delle pagine lette, prima di confidenza poi, quasi, di amicizia, tra chi legge e chi scrive.
Marías ha la capacità di svelare non disvelando. Lascia spazio e tempo al lettore per riflettere su quello che sta leggendo. Di fargli fare congetture, per poi tornare sulla pagina per seguire e accompagnare gli eventi.
La trama è importante, ma è, per certi versi, secondaria nella narrazione di Marías. Lo spazio che lascia aperto nella concatenazione degli accadimenti è lo spazio del pensare. Dissertazioni colte che aiutano la costruzione di un proprio immaginario capace di trasportarti in mondi sempre diversi.
In Tomás Nevinson c’è la storia principale, ovvero l’incarico di individuare una donna e di consegnarla alla giustizia o di giustiziarla in mancanza di prove evidenti, che il protagonista riceve dal capo dell’organizzazione, e ci sono storie di storie che servono a Marías per fissare meglio i caratteri e le caratteristiche comportamentali dei protagonisti per meglio definire il corso degli eventi.
E mentre si legge, come sempre accade quando si legge un buon romanzo, s’impara anche molto altro. Nel caso dello scrittore madrileno, traspare evidente la sua gratitudine nei confronti della letteratura e degli autori su cui si è formato, William Shakespeare su tutti e per tutti.
«“Uno dei grandi problemi della vita è che non possiamo provare nessuna emozione pura. C’è sempre nel nostro nemico qualcosa che ci piace, nel nostro amato qualcosa che non ci piace. È questo groviglio di stati d’animo a invecchiarci, a corrugarci la fronte e ad approfondire i solchi intorno ai nostri occhi”, questo scrisse un irlandese molto più di un secolo fa…».
Tomás Nevinson è un libro sull’attesa, sul saper aspettare e dunque anche sul fatalismo, sull’arrendersi alle circostanze. Con rara abilità, Marías, tiene in sospensione gli accadimenti. Si attarda su particolari laterali della narrazione senza che il lettore se ne infastidisca, anzi. Il suo attardarsi contribuisce a far crescere l’attesa ad un punto tale che il lettore diventa suo complice.
«Appena la gente sa qualcosa, crede di sapere tutto e crede che delle sue opinioni si debba tenere conto, non solo, che le sue opinioni meritino di prevalere su quelle degli esperti, è così tutto si paralizza: sorgono ostacoli assurdi, bisogna cercare un consenso su ogni cosa e non si va mai avanti su niente».
Una riflessione che ci porta ai nostri giorni e al tempo della pandemia. Ai giorni in cui tutti erano esperti di virologia e i veri esperti, a poco a poco, lasciavano spazio, al centro della comunicazione globale, alla gente che appena sa qualcosa, crede di sapere tutto.
Un libro sull’attesa. Sull’attesa di giustizia per esempio. Interessante e salutare la dissertazione sui tempi della giustizia. Sul libero arbitrio e il modo che abbiamo di scegliere e di decidere. Sul pentimento. Sul perdono. Argomenti non semplici da affrontare, così come non sono semplici le risposte agli interrogativi che questi argomenti pongono e che Marías dimostra di sapere tenere bene insieme. Trama, dissertazioni sull’essere, lingua. Tutto funziona al meglio, tutto è, nello stesso momento, pesante e leggero. Una capacità non solo letteraria che aiuta a pensare e a comprendere meglio le dinamiche della contemporaneità, del nostro «eterno presente».
«Che senso ha che dopo diciannove anni e undici mesi un criminale possa essere ancora severamente giudicato, ma trenta giorni dopo non più? È idiota che ci siano questi limiti temporali […] Il numero dei delitti commessi nella storia è così immenso che non ci basterebbero le forze. Per questo, quando la gente aveva fede, li lasciava per il Giudizio Finale. Si confidava nel fatto che Dio avrebbe messo ciascuno al suo posto e che per di più avrebbe saputo quali atti meritavano una condanna e quali invece erano giustificati; e chi si era pentito sinceramente e poteva essere salvato. Era un mondo più confortante, nel quale ci si aspettava che la giustizia di Dio arrivasse dove non arrivava quella dei viventi».
Il ruolo della giustizia e del libero arbitrio sono il cuore di Tomás Nevinson, da qui partono tutte le altre riflessioni che ci accompagnano per tutte le 590 pagine della versione italiana di questo suo, ultimo, lavoro.
La riflessione sulla persona umana, sull’essere padre.
«Alla fine, avevo avvisato Berta da Londra che sarei passato fugacemente da Madrid, le avevo chiesto di farlo sapere a Guillermo e Elisa, caso mai fossero disposti a trovarmi uno spazio tra le loro frenetiche attività giovanili. È tipico dei giovani credersi molto occupati ed essere egoisti, non speravo rinunciassero a qualcuno dei loro impegni per vedermi».
Sull’essere marito, essere che ama.
«Vedere la grazia di una persona è fondamentale, è condizione indispensabile per l’innamoramento, l’infatuazione, la simpatia e la fedeltà, io non ero stato vittima del primo, né della seconda, né della quarta, ma della terza sì: in ogni caso avevo maturato per lei l’affetto che suole portare con sé il contratto ripetuto della pelle, o la conoscenza della carne, come viene chiamata nella Bibbia quando la biasima o la sconsiglia o la proibisce, non importa».
L’amore, il tradimento, la segretezza, l’impossibilità di conoscere cosa realmente accade, temi ricorrenti nella sua opera letteraria, così come ricorrenti sono alcuni personaggi. Temi e personaggi attraversano i suoi romanzi, così come immagini, quadri, intere frasi, «non ci sono misteri» diceva Marías.
E senza che io sveli nulla che possa portare alla conclusione della storia di Tomás Nevinson (e Berta Isla, sua moglie e protagonista del romanzo precedente), Javier Marías si congeda con una riflessione sulla guerra e sui crimini di guerra. Una riflessione che ancora una volta allarga lo sguardo sull’eterno presente che viviamo.
«Avevo finito per abbracciare ciò che una volta esposi a Berta, che condannava l’indole stessa della mia professione. Le avevo detto molte cose, che la guerra era sempre consistita in inganno e tradimento, sin dal cavallo di Troia se non da prima. E mi ero spinto oltre: “In certe condizioni non è possibile agire secondo la legge né chiedere permesso per ogni iniziativa. Se il nemico non ha scrupoli, chi se ne fa perde, è condannato. Nelle guerre è così da secoli. Il concetto moderno di crimine di guerra è ridicolo, è stupido, perché la guerra consiste soprattutto di crimini, su tutti i fronti e dal primo all’ultimo giorno. Quindi le cose sono due: o non si combatte, oppure bisogna essere disposti a commettere i crimini necessari, quelli che servono per raggiungere la vittoria, una volta che si è cominciato».