Troppo presto per cantare vittoria

Le elezioni comunali sono spesso uno specchio deformato della realtà. La storia elettorale italiana è ricca di episodi che lo confermano. Il più clamoroso rimanda all’autunno del 1993 quando il Pds, in alleanza con altre forze minori, guadagnò tutte le grandi città facendo anche aggio su sindaci non appartenenti al partito. Dopo pochi mesi le illusioni di una facile vittoria alle politiche del 1994 si schiantarono contro la discesa in campo di Forza Italia e di Silvio Berlusconi che portò nell’agone tutto il suo impero mediatico e le strutture territoriali legate alle sue attività economiche.

La storia non si ripete mai ma è opportuno evitare di trarre conclusioni indebite dal turno elettorale del 3-17 ottobre. Vi sono alcuni elementi specifici che inducono ad una particolare cautela.

Uno riguarda la fedeltà dell’elettorato di centro-destra. Nonostante gli sia stata affibbiata l’immagine della sconfitta, in realtà questo schieramento ha perso appena due città, passando da 40 a 38. Certo, non una disfatta. Pur in presenza di una serie di circostanze sfavorevoli – divisione dello schieramento, candidati di basso profilo, un vento politico avverso tra assalti alla CGIL e saluti fascisti – il trio Berlusconi-Meloni-Salvini ha ancora una grande capacità di tenuta. Il suo elettorato passa sopra le divisioni interne e perdona peccatucci di nostalgia o sbavature dialettiche. Vota compatto contro il nemico, cioè la sinistra. Sa cosa deve fare quando si arriva al momento del voto: impedire la presa del Palazzo d’Inverno. E se per le comunali questo meccanismo non si attiva più di tanto, quando arrivano le politiche la mobilitazione è garantita.

È quindi ipotizzabile che la destra recuperi consensi al prossimo appuntamento elettorale, riattivando il grande serbatoio dell’astensione. Queste valutazioni si basano su un assunto: che la dinamica della politica italiana sia tornata bipolare. Il tripolarismo del periodo grillino è tramontato, e gli stessi pentastellati hanno da tempo deciso da che parte stare. Quindi alle prossime elezioni si ritornerà ad uno scontro tra due fronti, e la chiamata alle armi contro il nemico avrà di nuovo il suo peso per riportare alle urne i moderati da un lato, e i progressisti dall’altro.

Un altro problema che sembra essere trascurato dal successo del centro-sinistra riguarda la capacità di tenuta di questo schieramento. Mentre a destra sono solo tre i protagonisti, a sinistra il campo si presenta più diversificato. Il Partito Democratio gioca il ruolo del partito di riferimento ma non gode di una dimensione tale – ed è improbabile che le cose cambino – da diventare il dominus assoluto. Dei 5stelle, poi, è impossibile fare alcune proiezioni sul loro futuro viste le incognite che gravano sui loro destini: cosa farà Grillo; Di Battista formerà un nuovo partito di duri e puri dell’anti-establishment; dove si posizionerà il sempre più azzimato Di Maio; Conte uscirà dalla bolla dell’ex e si paleserà nell’agone politico? E i vari cespugli che si muovono tra il Pd e la destra si aggregheranno al carro dell’alleanza democratici-pentastellati oppure, complice una legge elettorale favorevole, andranno alla ricerca di quel Sacro Graal perduto della politica italiana che è il centro? Rifiuteranno la logica bipolare sperando di trarre profitto da una collocazione strategica più profittevole? Mentre dall’altra parte anche le personalità più moderate di Forza Italia difficilmente avranno il coraggio di rompere e alla fine seguiranno il serrate le file a destra, a sinistra c’è molto più fermento e incertezza.

Le grandi alleanze che hanno portato tanti sindaci al potere possono non reggere alla fiera delle vanità dei vari leader in pectore di quest’area.

Infine, come ricordava il leader laburista Harold Wilson, una settimana in politica è molto, molto lunga. Quindi tra Quirinale, referendum in vista e PNRR da implementare nei prossimi mesi le occasioni di conflitto all’interno del centro-sinistra non mancheranno. Troppo presto quindi per cantare vittoria.

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