L’elezione di Donald Trump non è la ripetizione di quanto accadde alla sua prima elezione nel 2016. Oggi si può forse parlare di un Trump II che ha caratteristiche diverse dalla sua prima presidenza. Questa volta non è sceso in campo solo il Trump populista, ma un candidato in parte diverso che è riuscito a mettere insieme una nuova, inedita coalizione: un elettorato periferico, forte soprattutto negli stati rurali e nelle periferie suburbane, e una oligarchia miliardaria con Elon Musk e Peter Thiel in prima fila, che unisce esponenti della tecnologia, della finanza, dei grandi fondi d’investimento.
Una convergenza forse mai vista tra strati popolari, con basso reddito e bassa istruzione, e una élite tecnologica e finanziaria. Si potrebbe quasi dire che Trump è riuscito a mettere insieme una visione futuristica della società americana e la domanda di protezione e di conservazione identitaria. Da una parte le auto che si guidano da sole, l’esplorazione spaziale che punta a colonizzare Marte, l’alta finanza in cerca di profitti globali, dall’altra un elettorato che manifesta la propria resistenza e rivolta contro l’idea di modernità e una cultura progressista rigettata per i suoi eccessi.
Anche in America si annuncia una nuova egemonia culturale che vede i diritti rovesciarsi in privilegi per alcuni settori sociali, il politicamente corretto soffocare l’espressione, una classe dirigente troppo concentrata sui risultati globali e trascurare gli effetti su parte della società. Sembra questo l’elemento di rottura del risultato che si proietta sulla più grande democrazia del mondo.
La crisi della maggioranza emergente democratica
Per la prima volta da vent’anni, il partito repubblicano ha non solo vinto la corsa alla presidenza, ma ha anche raccolto la maggioranza nazionale degli elettori (secondo dati non definitivi 51% Trump e 47,5% Harris). Si tratta, quindi, di decifrare le ragioni di una simile svolta rispetto al passato. È una operazione difficile, perché il cambiamento strutturale della società americana non è stato davvero compreso. Lo si osserva nelle incertezze dei grandi quotidiani di informazione, nelle tv nazionali, nei sondaggi che hanno dato fino all’ultimo un testa a testa che si sarebbe deciso per pochi voti.
Per riuscire a capire dobbiamo probabilmente tornare agli anni Settanta, quando gli strateghi del partito democratico elaborarono il concetto di «maggioranza democratica emergente». I due ideatori Ray Teixeira e John Judis sostennero che l’evoluzione demografica degli Stati Uniti avrebbe presto costituito una maggioranza sociale di cui avrebbero fatto parte donne, giovani istruiti, afroamericani, ispanici. Una maggioranza destinata a crescere, che avrebbe sostituito la passata, tradizionale contrapposizione tra democratici e repubblicani. La conseguenza, avvertì il professore Larry Sabato, fu che il partito democratico avrebbe dovuto organizzarsi secondo la logica di una «grande tenda» per rappresentare tutti i diversi segmenti sociali.
Questa strategia ha funzionato e ha allargato la base elettorale del partito. Ma poi la successiva trasformazione della società con il neoliberismo, la globalizzazione e la delocalizzazione delle industrie, la finanza e le sue crisi, ha creato crescenti diseguaglianze e ha riscritto e frammentato le mappe sociali. La rivoluzione digitale ha trasformato il capitalismo. La crisi climatica e soprattutto l’immigrazione sempre più numerosa hanno fatto esplodere le contraddizioni del sistema americano. Il modello della maggioranza democratica emergente è entrato in crisi. Una crisi interrotta dalla vittoria di Barack Obama ma non risolta.
Nel 2016 la capacità di interpretare la frustrazione sociale e il desiderio di rivalsa, passò ad un nuovo personaggio politico: Donald Trump. Dopo quattro anni, la vittoria del democratico Joe Biden è riuscita nuovamente ad arginare la marea montante del populismo. Ma forse il partito democratico americano e il suo presidente hanno commesso l’errore di illudersi che i grandi progetti pubblici messi in cantiere e i processi avrebbero svuotato il fenomeno Trump. Invece nonostante il lavoro di Biden per rilanciare l’America, una crisi di fiducia ha investito il sistema senza riuscire a fermare la regressione politica della società.
A indirizzare Trump verso la strategia elettorale che lo ha condotto alla seconda presidenza è stato l’ideologo di destra Steve Bannon. Lo racconta in un libro Bob Woodward, il giornalista del Washington Post che scoprì lo scandalo Watergate, vincitore di due premi Pulitzer, e considerato il miglior giornalista investigativo d’America.
Bannon spiegò otto anni fa a Trump: «La Clinton è il tribuno dello status quo, delle élite corrotte e incompetenti, che non si fanno scrupolo di lasciare che la nazione vada a rotoli. Lei sarà il tribuno del cittadino ignorato, l’uomo che vuole restituire all’America la sua grandezza. Primo: metteremo fine all’immigrazione illegale di massa e inizieremo a limitare quella legale per riappropriarci della nostra sovranità. Secondo: riporteremo in America i posti di lavoro dell’industria manifatturiera. Terzo: ci chiameremo fuori da queste inutili guerre all’esterno». Trump non realizzò quasi nulla di questo programma.
Il Trump II ha ripreso quel progetto, lo ha rilanciato, affermando, dopo la vittoria del 6 novembre, che «stavolta farò di tutto per mantenere la promesse fatte a voi, il popolo». Biden ha più volte richiamato l’attenzione sui rischi connessi alla candidatura di Trump, ma l’impressione è che il partito democratico e in generale il Paese siano stati vittime di una sorta di miopia di fronte a quanto stava accadendo sottotraccia nella società. Il politologo e intellettuale liberale conservatore Robert Kagan, che si è dimesso da editorialista del Washington Post dopo che il giornale non ha pubblicato un editoriale a favore della Harris per un intervento del suo editore Bezos, in un libro uscito da poco Insurrezione. Il populismo illiberale che sta facendo a pezzi l’America e la società aperta, ha scritto: «Le tendenze politiche degli ultimi anni sono sorprendentemente simili a quelle che hanno preceduto al Guerra Civile negli Stati Uniti. Anche in quel caso i due partiti avevano trascorso il decennio che precedette il conflitto dividendosi in due blocchi ostili e relativamente monolitici».
L’America divisa di oggi, in cui domina la polarizzazione affettiva al punto che le opinioni politiche condizionano la scelta del quartiere dove vivere e persino i matrimoni, rappresenta la corrente ideologica, di sentimenti, la concezione dell’America, che ha attraversato la storia del Paese dalla sua fondazione. È il lato oscuro della politica americana che è riemerso, diventando mainstream. L’idea del Maga (Make America Great Again) sarà la bandiera ideologica del Paese per i prossimi quattro anni.
L’economia reale (che va bene) sconfitta dall’economia narrata (che vede crisi)
Se consideriamo questa prospettiva storica, è difficile pensare che Kamala Harris abbia perso le elezioni perché lei e Biden non sono riusciti a domare in tempo l’inflazione che ha colpito il potere di acquisto dei lavoratori. Questa è la causa principale indicata da molti commentatori. L’economia naturalmente conta sempre nelle scelte degli elettori e l’inflazione ha pesato. Ma forse dovremmo guardare un quadro più complesso. Innanzi tutto, la situazione economica degli Stati Uniti è molto positiva. Il Paese con Biden continua a crescere e secondo il FMI avrà un aumento del Pil doppio rispetto a quello degli altri Paesi del G7. Dalla crisi finanziaria del 2008, il Pil pro capite degli europei è rimasto stabile, mentre quello degli americani è aumentato del 60%. È in atto un declassamento dell’Europa rispetto agli Stati Uniti, come ha affermato anche Mario Draghi. Il modello americano presenta un altro successo nella battaglia per l’occupazione: dopo i milioni di posti persi con il Covid, Biden oggi può presentare un tasso medio della disoccupazione al 4%, un dato vicino alla piena occupazione teorica. Si tratta di un record dai tempi di Lyndon Johnson negli anni Sessanta. Naturalmente l’inflazione ha avuto un forte impatto sui consumatori, ridimensionando gli aumenti delle retribuzioni. Biden ha investito 700 miliardi di dollari nel piano Inflation reduction act, che sta cominciando a dare i suoi frutti. La Fed ha iniziato a ridurre il costo del denaro, perché l’inflazione si sta raffreddando. Il paradosso è che l’occupazione che va bene rischia di tenerla alta: gli economisti spiegano che c’è una relazione tra occupazione e inflazione. Le aziende vanno bene, devono assumere, e per riuscirci devono offrire salari più alti. Una dinamica che può sostenere l’inflazione.
All’andamento economico positivo, occorre aggiungere i grandi progetti con ingenti investimenti pubblici per la transizione climatica, le nuove tecnologie, le infrastrutture, che attirano capitali anche dall’Europa. Inoltre, in questi quattro anni è stato restituito un ruolo cruciale al sindacato, sono state rafforzate le garanzie sindacali e le coperture sanitarie, gli stipendi medi sono cresciuti.
Gli errori di Biden e della Harris forse non vanno cercati nella gestione dell’economia, ma semmai nel rapporto con l’opinione pubblica e nel ritardo con cui il presidente ha accettato di ritirarsi a causa della sua età avanzata. L’inflazione è stata sottovalutata, non è stata colta la sua funzione di innesco dello scontento che si doveva smontare. Si può forse sostenere che l’America conosce una oggettiva crescita economica, ma gli elettori hanno votato come se vivessero una crisi. Del resto, la narrazione di Trump e dei repubblicani evocava proprio il disastro economico. L’economia reale così è stata sconfitta dall’economia raccontata.
Come spiegarlo anche tenendo conto che l’inflazione pesa sui bilanci familiari? Forse con il ruolo che hanno le percezioni nel modo in cui si interpreta la realtà. Berger e Luckman, autori della teoria della costruzione sociale della realtà, hanno spiegato come percezioni e interazioni influenzano il modo in cui gli individui comprendono il mondo sociale. Alla medesima conclusione giunge la teoria delle rappresentazioni sociali di Moscovici. Le percezioni non sono la ricezione di dati neutrali, sono influenzate da fattori cognitivi, emotivi, sociali che possono condurre a una lettura distorta della realtà.
Il ruolo delle percezioni, della sfiducia, delle credenze
Forse dovremmo considerare l’inflazione all’interno di quello che il sociologo Irving Goffman definiva il contesto di comprensione. Il quadro americano (e non solo) è quello di una sfiducia che si è sedimentata in anni: sfiducia verso le istituzioni, la classe dirigente, i partiti, i media. Per lo studioso francese Rosanvallon la sfiducia è il movente costitutivo dell’antipolitica populista. La sfiducia americana è effetto dello smarrimento di fronte ai processi globali e alle loro pesanti conseguenze, agli eccessi del neoliberismo, che la rappresentanza politica non sempre sa ricondurre a un senso riconoscibile e chiaro. Su questo terreno di sfiducia e di disorientamento è stato costruito dai cittadini un sistema di credenze che poi è molto difficile rimettere in discussione.
Il segmento sfiducia-credenze sembra avere avuto un ruolo decisivo nel sostituire orizzonti progettuali, mediazioni istituzionali e argomentative politicamente gestibili. E quindi ha contribuito a far vivere come fosse una crisi generale l’inflazione che danneggia il potere d’acquisto. Anche perché l’esperienza quotidiana di tanti conosceva non poche difficoltà. Del resto, la forza del populismo riflette la difficoltà strutturale di comprendere e di dare senso collettivo ad una realtà che è opaca, ma determina le vite dei cittadini, alimenta un’incertezza contagiosa, favorisce l’indebolimento del legame sociale. E una informazione distorta e spesso falsa non aiuta nell’orientarsi in un mondo sempre più complesso. L’errore di fondo di Biden, Harris, del partito democratico probabilmente è stato di opporre a un bisogno urgente di protezione e di sicurezza, che arrivava dai ceti più deboli, una prospettiva della società guardata dall’alto e quasi da lontano. Una astrattezza istituzionale, sia pure basata su elementi reali (l’economia e l’occupazione vanno bene), non è riuscita a parlare il linguaggio quotidiano delle persone. In tanti hanno così trovato solo conferma del loro percepirsi dimenticati, inascoltati, non rispettati. Una distanza che ha fatto apparire a certi elettori la Harris e Biden come difensori dello status quo. Conservatori legati alle odiate élite, proprio come voleva l’ideologo Bannon. Non a caso il leader della sinistra democratica, Sanders, ha osservato che Kamala non riusciva a scaldare i cuori. Così i democratici non sono riusciti a risolvere il problema della crescente disaffezione verso il sistema.
Inoltre, i leader democratici non hanno voluto seguire Trump nella retorica antisistema, rinunciando a una rincorsa demagogica per senso di responsabilità. Ma per molti americani i responsabili sono i colpevoli. Trump è stato abile nel mettere in scena il copione della crisi sull’inflazione, e nel collegarlo al tema della immigrazione, raccontata come una invasione, facendone il crogiolo di tutte le paure americane, il capro espiatorio dei problemi. Un nemico riconoscibile è stato offerto alla rabbia collettiva. L’idea di una deportazione degli immigrati sembra condivisa da una larga maggioranza degli elettori di Trump.
Kamala Harris ha incardinato la sua campagna sui diritti delle donne (l’aborto) e sui rischi per la democrazia, avanzando un’offerta che ha intercettato il sentimento dell’elettorato democratico, ma non al punto da riuscire a mobilitarlo come ha fatto Biden. L’impressione è che parte della classe lavoratrice, del ceto medio, le piccole città non sono state raggiunte. Elettori potenzialmente democratici hanno disertato il voto, mentre lei ha ceduto quote di elettori ispanici, afroamericani, giovanissimi a Trump. Kamala Harris alla fine ha perso 4 milioni di voti rispetto a Biden, mentre Trump ne ha guadagnati 8 rispetto al 2020.
Il problema dei democratici è non aver saputo trasformare la sfiducia in speranza, come fecero Obama e Biden, né hanno dato forma alle aspettative della società. Del resto, hanno dovuto fare i conti con una società molto cambiata, differenziata, che reclama riconoscimento, manifestazione di sé, visibilità, un potenziale vitale da valorizzare nella competizione generale. L’America popolare rivendica la propria identità, il proprio status sociale, una morale e una religione tradizionali. È soprattutto l’America spaventata di una parte dei bianchi che oggi rappresentano ancora il 70% della popolazione, ma che tra qualche decennio saranno il 50 % e temono di essere stranieri in casa propria. Nello stesso tempo, gli elettori sembrano attratti soprattutto dalla dimensione emozionale, sensibile, spettacolare, potremmo dire estetica, che modella persino il processo di identificazione con il leader.
In passato l’identificazione con il leader avveniva sulla base di un bene comune, di valori condivisi, di leggi che si ritenevano giuste, di temi che oltrepassavano l’individuo. Oggi l’identificazione appare più superficiale, legata alla personalità del leader, allo stile e ai gesti del personaggio, al suo linguaggio spesso greve e offensivo che lo rende simile a noi, riconoscibile. L’idealizzazione si è spostata dai contenuti alla credibilità personale del leader, che valorizza sé stesso. In questo contesto, l’offerta di Trump è stata allineata con un diffuso sentire sociale.
L’emergere di una coalizione sociale reazionaria
Il vincitore è stato abile nel coltivare la sua immagine di uomo che vuole presentarsi come straordinario e insieme ordinario, che lo rende facilmente leggibile e imitabile. Le sue proposte per risolvere i problemi dell’America sono altrettanto semplici e facili da memorizzare: costruire un muro contro i migranti, deportarli, fare finire la guerra in pochi giorni e non bruciare miliardi per la difesa dell’Ucraina, far pagare gli altri Paesi ponendo dazi (con il rischio però di far salire l’inflazione). La dottrina sovranista è stata in grado di agganciare le paure dell’americano medio. È riuscita a infiltrarsi anche là dove era più debole, come alcune aree urbane, conquistando voti di ispanici e persino afroamericani.
Le elezioni si sono giocate su tre fattori. Sulla geografia politica: le aree metropolitane in genere favorevoli ai democratici, quelle suburbane e rurali più vicine a Trump. Sulla frattura dell’istruzione, dove è emersa una distanza notevole tra chi ha un titolo di studio superiore o laurea, che vota maggiormente democratico, e chi non lo ha e premia Trump. Infine, la frattura di genere, che non ha favorito la Harris al punto di consentirle di vincere. Le donne sono in maggioranza rispetto agli uomini, ma le moderate o le conservatrici, quelle che vivono nelle aree periferiche e hanno una bassa istruzione, hanno votato per l’aborto nei referendum degli stati, ma poi spesso hanno scelto Trump.
La novità elettorale delle presidenziali è stata la capacità di Trump di riuscire ad allargare il proprio bacino elettorale presso ceti sociali che prima lo rifiutavano: parte delle élite, i più giovani, alcuni gruppi etnici. Il Trump II non si è affidato solo all’istinto politico del populista, che convince l’America profonda. Dietro di lui stavolta compare la convergenza di ceti sociali diversi. Spunta la regia di esponenti della oligarchia che hanno in mente un progetto libertario, tecnologico, nazionalista per gli Stati Uniti. Emerge una coalizione di ceti popolari e una élite ricca pervasa da uno spirito reazionario, che sembra voler riconfigurare il liberalismo democratico.
Ma la Costituzione e la democrazia come affronteranno l’arrivo al potere di un presidente e di un’amministrazione distanti dalla concezione liberale? I fondatori degli Stati Uniti avevano ben chiaro che la forma di governo che avevano costruito doveva ergersi sulla virtù dei cittadini. Madison scrisse che, se non c’è «alcuna virtù tra di noi allora ci troviamo in una situazione miserabile». È da vedere se Trump, anche lui avanti negli anni, avrà la capacità di realizzare il progetto di un cambiamento profondo della democrazia americana. Gli anticorpi ci sono. Ma per due anni conterà sull’allineamento del sistema istituzionale sulle posizioni del partito repubblicano: Presidenza, Congresso, Corte Suprema. Un nuovo conflitto sembra cominciare, hanno fatto capire Biden e la Harris. Ma la maggioranza degli elettori per ora gli ha dato il via libera.