Molti scritti per il cinema di Italo Calvino hanno ingrossato la variegata ciurma della «Nave dei copioni morti, quella terribile nave fantasma che percorre mari gelidi e ventosi, carica di sceneggiature che il vento lacera e sparge nelle acque verdastre», per usare quell’immagine dalla formidabile carica evocatrice offerta da Bernardino Zapponi nel suo libro di memorie felliniane del 1995, intitolato appunto Il mio Fellini (1995).
Niente di straordinario in verità. «La storia del cinema – scrive Dario Argento nella sua autobiografia del 2014, Paura) – è fatta di molti rifiuti e se qualcuno si prendesse la briga di metterli in fila si otterrebbe una controstoria del cinema altrettanto intrigante». E questo grazie anche al fatto che non pochi soggetti e sceneggiature inediti sono usciti dal cassetto e hanno avuto nel corso de tempo, un diverso uso pubblico grazie alla pubblicazione in riviste o in libro.
Pensiamo a Viaggio in camion, soggetto cinematografico di argomento resistenziale. Calvino lo pubblica su Cinema nuovo del 25 aprile 1955, numero speciale in occasione del decennale della Liberazione, per la rubrica Proposte per film. «Quando si ricominceranno a fare film sulla Resistenza – presto, io dico – il film che mi piacerebbe veder fare è un film che rappresenti la varie posizioni degli italiani di fronte alla guerra e alla lotta partigiana», auspica lo scrittore. È una scelta tematica comune ai soggetti cinematografici, letterari, figurativi del periodo, se non proprio del più ampio discorso politico di sinistra. Vale a dire, raffigurare la Resistenza come fenomeno in cui diversi strati sociali del popolo italiano trovano in quel momento critico un terreno d’incontro comune, come avviene nel seminale Roma, città aperta di Roberto Rossellini.
Da qui quella che potremmo definire come l’opzione Ombre rosse, uno dei pochi titoli non censurati dal fascismo, probabilmente visto da Calvino durante l’adolescenza. Il classicissimo del 1939 di John Ford, il western per eccellenza, come è noto, è tratto da una novella di Guy de Maupassant, Boule-de-suif (1880), dove dieci persone di diversi strati sociali in fuga da Rouen, invasa dai prussiani, dapprima ostili tra loro, diventano a poco a poco solidali dinanzi a una minaccia esterna. Al posto della diligenza di Rouen o della corriera del Far West, Calvino immagina un vecchio camion bolso, a metano, preso d’assalto da gente in fuga dai tedeschi. Ecco l’ambiguo «uomo grasso», un impresario pronto a tradire dal momento che è in affari con il nemico; il milite destinato a diventare partigiano insieme al renitente alla leva; la prepotente «donnetta già grigia», soprannominata la Gallina per la sua voce acuta; la ragazza di campagna; l’ex prostituta. Insomma, il popolo che resiste.
Un altro progetto di Calvino rimasto sulla carta è il trattamento per un Marco Polo cinematografico, che lo impegna alla fine degli anni Cinquanta, quasi contemporaneamente all’uscita del Cavaliere inesistente (1959) e alla successiva riunione in un unico volume dei Supercoralli della trilogia dei Nostri antenati, la quale ha come «finito di stampare» il 27 luglio 1970. Punto di partenza un’idea di Mario Monicelli: realizzare un film a metà strada tra il documentario e la fiction in cui venisse ripercorsa la rotta del grande viaggiatore da Venezia a Pechino, per vedere «quanto è rimasto e quanto è cambiato». Il progetto viene proposto alla Vides di Franco Cristaldi e a Suso Cecchi D’Amico. Tutti concordano nel coinvolgere Calvino, ritenuto in grado di «dare una traccia a Marco Polo, fra il magico, il documentaristico e il rievocativo».
Lo scrittore accetta e rilegge il Milione per attingervi quella «carica visionaria che è il suo segreto». Scrive a Cecchi d’Amico in una lettera del 2 settembre 1960: «Quello su cui dobbiamo puntare è lo spettacolo delle meraviglie del mondo in un tempo in cui il mondo era sconosciuto, così come il film del Giro del mondo in 80 giorni è riuscito a creare una meraviglia di scoperte tutta ottocentesca». Le 105 pagine dattiloscritte licenziate da Calvino – decisamente discontinue e tante per un film di quasi due ore – suscitano l’apprezzamento di Monicelli che le paragona ad «arazzi persiani» più che degne per la pubblicazione almeno in un volumetto. Nel frattempo, il progetto del Marco Polo arriva a Dino de Laurentiis, che propone a Ernest Hemingway di scrivere una sorta di commento del viaggio e di comparire con la sua voce. Hemingway rifiuta senza indugi la proposta.
Il film per ragioni non del tutto note non si fa.
Si è soliti da molte parti considerare questo testo come una sorta di nucleo originario delle Città invisibili (1972). In realtà il Marco Polo del 1960 non ha molto in comune con quello successivo del 1972. Nel primo caso ci troviamo dinanzi a un giovane dall’aria scapestrata, interessato per lo più alle ricchezze mercantili e alle donne. Una figura che ha molti tratti in comune con i personaggi della trilogia araldica, in particolare, con il vagabondo «tutto istinto» Gurdulù, scudiero del Cavaliere inesistente Agilulfo. Nelle Città invisibili invece il viaggiatore veneziano si presenta come una versione maschile della Sherazade delle Mille e una notte, capace com’è di ingannare per anni il Gran Kahn, descrivendo città inesistenti o forse continue variazioni della stessa città d’origine. Se un anello di congiunzione tra i due testi c’è, va rinvenuto appunto nella figura dell’imperatore. Calvino lo descrive come un «sovrano perfetto, dalla assoluta saggezza e gusto per i piaceri della vita, ma […] malinconico e con sfumate incrinature psicologiche inafferrabili e ambigue». Una figura paragonabile al Duca Orsini della shakespeariana Dodicesima notte (come scrive in una lettera a Cecchi d’Amico del 2 settembre 1960).
Di grande interesse è la presenza in questo trattamento di tracce, sia pure allo stato embrionale, di quella narrativa combinatoria che Calvino svilupperà negli anni a venire. Del resto, il Milione di Rustichello si configura come una mappatura delle narrazioni di itinerari e città, l’una innestata sull’altra. Mappatura simboleggiata dall’arabesco. Leggiamo questo passo particolarmente significativo del Marco Polo del 1960. È l’incipit del capitoletto intitolato Marco vuole partire: «Seduto su un tappeto persiano, Marco segue con la mano e con lo sguardo gli arabeschi – Questo tappeto viene dalla Persia, i suoi disegni non hanno nessun significato, ma a guardarli, a percorrerli con lo sguardo senza smettere mai, tutte queste linee, tutti questi colori, il modo come nascono uno dall’altro, e si incontrano e si sovrappongono, mi pare che racchiuda tutto il mondo, città con palazzi dai tetti d’oro e templi e golfi, e mari pieni di isole».
L’osservazione degli arabeschi del tappeto stimola l’indole affabulatoria del veneziano, il quale attraverso gli enigmatici disegni del tappeto immagina i luoghi che sogna di visitare. La superficie del tappeto è di per sé una mappa. E la mappa è di per sé esperienza di possibili itinerari, già presenti sulla superficie del tappeto. È come se Calvino iniziasse a tracciare una rotta o il senso di un viaggio, che nelle Città invisibili individuerà come l’unico ancora possibile: quello che si svolge all’interno del rapporto tra i luoghi e i loro abitanti, dentro i desideri e le angosce che ci portano a vivere le città.
Quello tra Calvino e il cinema è un amore difficile, fatto anche di incomprensioni, rifiuti e sfortuna.
Nel 1965 l’autore delle Cosmicomiche declina l’invito di Michelangelo Antonioni, che gli chiede di collaborare alla sceneggiatura di Blow up (1966), tratta dal racconto di Julio Cortàzar La bava del diavolo. Impegnato com’è nella scrittura dei racconti di Ti con zero, lo scrittore vede la proposta particolarmente impegnativa. Invita così il regista a rivolgersi direttamente a uno sceneggiatore professionista o, meglio, allo stesso scrittore argentino che «potrebbe dare al film (se accetta che sia diverso dal racconto) quella tensione di mistero che lui sente, quella tragicità che lui sa comunicare alle cose quotidiane» (è quanto suggerisce in una lettera datata Torino, 29 settembre 1965).
Calvino, sia pure molto marginalmente, è presente nel più rimpianto tra i progetti non realizzati di Antonioni, quello cui il grande regista ha maggiormente lavorato nella sua carriera: Tecnicamente dolce (1966). Lo script viene pubblicato da Einaudi nel 1976. Ricorda il regista nella prefazione di aver preso in prestito il titolo da una dichiarazione di Robert Oppenheimer che recita: «La mia opinione è che se uno intravede qualcosa che gli pare tecnicamente dolce si attacca a quella cosa e la fa». In altri termini, commenta Antonioni, «tutto ciò che costituisce un passo avanti verso la conoscenza e la verità, una verità scientifica qualunque essa sia, è giustificabile perché è tecnicamente dolce, irresistibile».
Un primo abbozzo del film risale alla metà degli anni Sessanta e viene sviluppato in parallelo a Blow Up. Entrambi i soggetti vengono sottoposti a Carlo Ponti, ma solo il secondo riesce a diventare un grande successo internazionale. Tecnicamente dolce invece resta nel cassetto. Ponti non ha più intenzione di produrre il film, rimangiandosi quanto aveva garantito anni prima al regista. è probabilmente spaventato dalla scelta della location principale: la foresta vergine dell’Amazzonia, la più terrificante e meno fotogenica del mondo, dove i personaggi rischiano l’invisibilità, facendo buio all’improvviso. Lo stop viene dato proprio quando Antonioni inizia a sentirsi sicuro delle soluzioni tecniche – molto complesse in verità – da adottare durante le riprese. Il mondo che faticosamente è riuscito con fatica a costruire con la sua immaginazione, «fantastico e vero, bellissimo e misterioso», crolla di colpo. «Le macerie sono ancora qui. Da qualche parte nella mia mente».
La sceneggiatura di Tecnicamente dolce reca in esergo questa frase del regista ferrarese: «Esiste una teoria secondo cui l’uomo vive in uno stato di equilibrio instabile, che con gli anni diventa sempre più stabile, finché raggiunge l’equilibrio, cioè la morte».
Si racconta la vicenda di un ex giornalista di 37 anni – di lui ci viene data solo l’iniziale del nome, T., –, che disilluso dalla politica e dalla società alienante, sceglie di partire per l’Amazzonia alla ricerca di un radicale cambiamento di vita, un riandare alle origini di sé stesso. Un cercare di ritrovarsi alle sue fonti più genuine e più pure: «la giungla come tentativo di dimenticarsi».
Un’altra storia di sparizione, dunque, uno dei temi più cari al regista, una sorta di fil rouge che pervade la sua opera. Pensiamo alla sparizione dell’amante nell’Avventura (1960), all’appuntamento che cade nel vuoto nell’Eclisse (1962), fenomeno astronomico che determina appunto una occultazione (cioè, una sparizione); alla sparizione di un cadavere (e di un rullino) in Blow-Up (1966) e allo scambio di identità in Professione: reporter (1975). E questo per rimanere soltanto ai film realizzati (un elenco completo esteso anche ai progetti non fatti lo troviamo in un articolo di Mario Seremellini, Michelangelo Antonioni. I film che non ho girato, uscito su «Repubblica» del 16 settembre 2012).
Per il trattamento di Tecnicamente dolce Antonioni chiede la consulenza di Calvino. Lo testimonia una lettera al regista priva di data, presente nell’archivio Antonioni di Ferrara, ricca di correzioni e segni di penna nella parte finale della seconda pagina. «Solo una prova per vedere quali motivi tenere (eventualmente sviluppare)», in cui suggerisce ad Antonioni di utilizzare nel prologo del film prima dei titoli di testa, il racconto di un arciere giapponese che si sottopone a una serie di esercizi psicofisici per migliorare le proprie capacità. Una scena del tutto assente nella sceneggiatura pubblicata, come del resto il nome di Calvino. Altre brevi note riguardano le relazioni che potrebbero intercorrere tra il personaggio maschile, quello femminile e un loro comune amico.
Il guidatore notturno, «racconto deduttivo», scritto nel giugno 1967 e inserito nella raccolta Ti con zero, riscuote subito l’attenzione di Antonioni, che si lancia a capofitto in un nuovo progetto da realizzare sulle macerie di Tecnicamente dolce: La spirale, titolo poi cambiato in Il colore della gelosia. Un uomo che dopo un litigio telefonico con l’amante, si mette in macchina di notte per raggiungerla nell’altra città dove lei vive. Però pensa che anche lei, la donna che ama, vada incontro a lui, e la immagina nelle indistinte auto nell’altra direzione dell’autostrada. A complicare le cose c’è pure un rivale in amore che potrebbe interferire, esserci anche lui in quell’autostrada fatta di coni di luce di auto indistinguibili nel buio della sera.
Il film è «la storia del viaggio a tre diversi livelli: quello realistico, quello del ricordo e quello dell’immaginazione», con al centro un uomo a cui «una serie di fattori impediscono di pensare e vedere la realtà». Antonioni pensa a colori diversi a seconda del cambiamento degli stati d’animo e della situazione. Da qui l’ipotesi di effettuare le riprese in elettronica con apposite telecamere. I tempi però non sono ancora maturi. E poi la sceneggiatura non convince il regista. Da qui la decisione di abbandonare il progetto.
p.s.: Un solitario guidatore notturno di nome Locke, interpretato da Tom Hardy – stesso cognome del protagonista di Professione: reporter – a bordo di un auto diretta da Birmingham a Londra, dialoga al telefono lungo l’intero tragitto, con interlocutori invisibili, cui ascoltiamo solo le voci: la donna che lo aspetta in ospedale, in attesa del parto, cui ha promesso di assistere; la moglie tradita; uno dei due figli, che lo attendono come ogni sera a casa; il suo capo, che minaccia di licenziarlo in tronco se non si recherà al lavoro l’indomani: insomma il dramma di un uomo sul crinale di una svolta esistenziale drammaticamente decisiva. Che Stephen Knight, formidabile show runner di serie come Peaky Blinders e Taboo, abbia preso spunto dal racconto di Calvino, per il suo bellissimo Locke, presentato fuori concorso a Venezia 2013?
Riferimenti bibliografici
Michelangelo Antonioni, Tecnicamente dolce, Einaudi, Torino 1976
Dario Argento, Paura, Einaudi, Torino 2014
Mario Seremellini, Michelangelo Antonioni. I film che non ho girato, «Repubblica», 16 settembre 2012