Il 21 gennaio del 1921 a Livorno prese forma il Partito comunista italiano che diventerà il più grande partito comunista dell’Europa occidentale, nato dalla scissione consumata durante il diciassettesimo congresso del Partito socialista italiano. Un partito politico che ha avuto la capacità di coinvolgere milioni di italiani nel corso della sua storia, terminata con la svolta della Bolognina e che il 3 febbraio del 1991 porterà allo scioglimento del Partito comunista italiano e alla nascita del Partito democratico della sinistra.
Una ricorrenza importante per la politica che viene celebrata con tantissime iniziative in tutto il Paese. Film, documentari e libri che raccontano l’evoluzione e l’influenza esercitata da quel partito sulla cultura, non solo politica, dell’Italia.
Uno dei più interessanti è Eravamo comunisti, scritto da Umberto Ranieri. Una riflessione che attraversa i cento anni del partito comunista italiano, le sue trasformazioni e il ruolo dei protagonisti principali. Il libro si avvale della prefazione di Giuliano Amato e delle postfazioni di Biagio De Giovanni e Salvatore Veca.
Umberto Ranieri, napoletano, è stato uno degli esponenti di punta di quel partito che ha seguito in tutte le sue evoluzioni e trasformazioni. Laureato in Filosofia è stato Deputato e Senatore della Repubblica e Sottosegretario di Stato al Ministero degli affari esteri dal 1998 al 2001.
Ho incontrato Umberto Ranieri e prendendo spunto dal suo libro abbiamo parlato di quel partito di cui è stato anche segretario della federazione di Napoli.
Dedica il suo libro a Emanuele Macaluso e Giorgio Napolitano e il caso ha voluto che c’incontrassimo proprio il giorno in cui è morto Emanuele Macaluso. Come lo racconterebbe ai ragazzi e alle ragazze di oggi?
Emanuele Macaluso è stato un combattente politico della sinistra italiana, dotato di una vivida intelligenza e di una grande umanità. Un uomo libero, con una capacità di totale disinteresse personale. La soglia avanzata della vita raggiunta non gli ha impedito di continuare a riflettere e scrivere sulla vicenda politica italiana, a battersi per rilanciare una sinistra che lui voleva si ispirasse a idealità socialiste. In una epoca di sfrenata personalizzazione della politica, di smania di protagonismo, Emanuele richiamava alla serietà, al rifiuto di ogni affabulazione, al senso di responsabilità verso i lavoratori e verso il Paese. Era bello discutere con Emanuele. Colpiva la sua disponibilità al dialogo sulla vita, le difficoltà e le ansie della esistenza. Era bello farlo negli incontri conviviali, dinanzi ad un bel bicchiere di vino rosso magari della sua amata Sicilia. Mancherà a tutti coloro che con lui si sono battuti per rilanciare il ruolo e la funzione della sinistra italiana, mancherà la sua critica alla demagogia e al giustizialismo, mancherà la sua intelligenza politica e la sua umanità.
Il 21 gennaio di cento anni fa nasceva a Livorno il Partito comunista italiano. Un partito di massa e popolare la cui storia è durata settant’anni. Qual è il suo primo ricordo legato a quel partito?
La sezione del Pci non era distante dalla mia casa. Ricordo le manifestazioni di strada che i comunisti di quella sezione organizzavano, la loro presenza ogni domenica per vendere l’Unità. Era uno dei quartieri più popolari di Napoli, il quartiere Stella. Lì sentii per la prima volta le note di Bandiera rossa.
Giuliano Amato che firma la prefazione del suo libro scrive, «l’élite dirigente del PCI fu forse la più colta del panorama politico italiano». Lei che ha vissuto in prima persona e da protagonista quel partito, percepivate questa dimensione e considerazione che si aveva del partito al fuori di Botteghe Oscure?
La forza del comunismo italiano risiedeva non soltanto nella attrazione tra gli intellettuali, ma nel profilo intellettuale del gruppo dirigente. Gli scritti del carcere di Antonio Gramsci pubblicati da Togliatti tra la fine degli anni quaranta e l’inizio dei cinquanta si rivelarono «una formidabile risorsa strategica del Pci in quanto presentavano un forte intreccio con la cultura storica e filosofica italiana che forniva come tale una fonte di legittimazione nazionale». Ricordo la complessità delle istituzioni culturali del Pci a cominciare dall’Istituto Gramsci, l’ampiezza del dibattito culturale nel gruppo dirigente. Il ricordo insomma è, come scrive Biagio De Giovanni, di «una grande aristocrazia politica, colta, con diversi orientamenti al proprio interno» tenuti insieme dalla irreversibile scelta originaria e dal centralismo democratico.
Il Pci è stato un partito di massa e vi si aderiva per diverse ragioni. Concorda con Antonio Giolitti e Alfredo Reichlin che si diventava comunisti anche per combattere il fascismo?
Certo. La lotta al fascismo fu il motivo della adesione al Pci di tanti. Si pensi a Giorgio Amendola, ai giovani romani della cospirazione antifascista, Pietro Ingrao, Paolo Bufalini, Aldo Natoli, Lucio Lombardo Radice, Antonio Amendola. Scelsero di combattere il fascismo con i comunisti che apparvero la forza più decisa e determinata in quella lotta. Il momento della scelta fu l’otto settembre del ’43 quando lo Stato sabaudo si disintegrò e il suo territorio fu smembrato e occupato da eserciti stranieri. Il Pci divenne allora il punto di riferimento per tanti giovani che volevano riscattare l’Italia dall’abisso in cui il fascismo l’aveva precipitata. Insomma fu un nuovo sentimento nazionale a condurre questi giovani all’impegno nel Pci di Togliatti che chiamava alla iniziativa per «riconciliare la classe e la nazione, a costruire un partito di popolo capace di portare a compimento il Risorgimento».
Giorgio Amendola prima e Giorgio Napolitano poi, avrebbero voluto portare quel partito verso posizioni più vicine alle idee socialiste. Nacque la corrente politica che il filosofo Salvatore Veca denominò dei miglioristi. Lei ne ha fatto parte, cosa ha significato per il dibattito politico italiano la vostra posizione all’interno del Pci?
Chi erano i miglioristi? La loro battaglia politica ebbe inizio nella seconda metà degli anni ottanta e si esaurì nella prima metà del decennio successivo. L’impresa nasceva dal convincimento che le forze che avevano seguito il Pci avrebbero trovato la più coerente ricollocazione nel campo del socialismo democratico. Ciò sarebbe avvenuto facendo leva e valorizzando quel filone di cultura, riformista nella sostanza e determinata nell’avversione al massimalismo e alla demagogia, che si era manifestato nella storia dei comunisti e ne aveva consentito il radicamento nella società italiana. Di questo processo, teso a liberare il PCI dai luoghi comuni di una retorica rivoluzionaria, Giorgio Napolitano ed Emanuele Macaluso furono protagonisti. Il tratto distintivo della strategia politica dei miglioristi fu la ricerca della unità tra socialisti e comunisti. La perseguirono senza successo. Il solco che si era aperto tra le due forze storiche della sinistra italiana era divenuto incolmabile.
Il PCI non diventò mai socialista. Democratico di sinistra o democratico, ma mai socialista. Perché?
Il Pci rimase estraneo alla cultura originata dalla tradizione socialdemocratica, quella che da Bernstein all’incontro con il liberalismo di Beveridge e con le teorie di Keynes, fino all’opera delle socialdemocrazie di governo degli anni sessanta e settanta del secolo scorso fu all’origine del welfare state e della riforma del capitalismo. L’imperativo non ammetteva obiezioni: non si poteva diventare socialdemocratici. Lo stesso tentativo di Gorbaciov, alla fine degli anni ottanta, alimentò nel Pci l’illusione che, accanto alla socialdemocrazia, potesse prendere corpo una sinistra comunista rinnovata. Una idea che apparve a molti come una possibile ripresa del nucleo vitale dell’esperienza del Pci: una versione democratica del progetto comunista che potesse mantenere una distinzione rispetto all’approdo socialdemocratico. La perestrojka fu intesa come la dimostrazione che il sistema sovietico fosse riformabile.
Enrico Berlinguer, il segretario più amato, e Aldo Moro furono protagonisti di un tentativo che avrebbe voluto insieme le due forze politiche più numerose e popolari in Italia, Il PCI e la Democrazia Cristiana. È quello l’ultimo grande progetto della politica italiana? L’ultima grande idea?
Per i comunisti, il compromesso storico era lo sbocco di tutta la storia precedente del partito. La stessa vittoria elettorale del 75/76 fu interpretata come qualcosa che veniva da lontano, il risultato di un lungo processo politico. Quella politica fu intesa dall’intero gruppo dirigente come la continuazione e lo sviluppo della linea di unità democratica. Occorreva riprendere il filo spezzato nel 1947 dalla guerra fredda e puntare ad una nuova tappa della rivoluzione democratica e antifascista. Il compromesso storico non costituiva la risposta provvisoria ad una situazione contingente ma una scelta che dava una forma definitiva al futuro politico del Paese. Berlinguer portava alle ultime conseguenze la tradizione togliattiana. Per Aldo Moro, il suo interlocutore nella Dc, l’unico elemento chiaro era preservare l’unità e la forza della Democrazia Cristiana. Qualunque sviluppo della vicenda politica italiana aveva come condizione per Moro che la Democrazia Cristiana restasse unita. Lo disse con chiarezza: «l’intesa con il Partito Comunista è compatibile con i vincoli internazionali dell’Italia, solo se la DC conserva il suo ruolo di guida e di garanzia». Moro avvertì la necessità di un diverso tipo di rapporto con il Pci ma escludeva che la evoluzione della vicenda politica potesse muovere nella direzione auspicata da Berlinguer. La sua era «una manovra tattica accorta e intelligente che non comportava accordi di lungo periodo».
Gli anni Ottanta sono per il Pci gli anni della battaglia con Bettino Craxi e il Partito Socialista. Al di là delle schermaglie pubbliche c’è stata, secondo lei, la possibilità reale che potessero lavorare insieme al governo del Paese?
Quella possibilità fu perduta. Socialisti e comunisti attraversarono gli anni ottanta duellando tra di loro. Alla fine in un groviglio inestricabile di responsabilità le conseguenze furono pagate da entrambi i duellanti. La storia del Psi giunse ad un esito traumatico. Il Pci fu incapace di trarre in modo definitivo le conseguenze delle dure repliche della storia e di anticipare la svolta cui giunse solo nel 1989. Il punto di non ritorno fu raggiunto negli anni in cui Bettino Craxi fa alla guida del Psi. Dopo l’89 Craxi commise l’errore politico di fondo. Non seppe sganciarsi da quella che era diventata «una alleanza opportunistica e priva di avvenire» con la Dc. Concluso il conflitto tra socialismo dispotico e socialdemocrazia, era giunto il momento di aprire la situazione politica italiana alla prospettiva dell’alternativa di governo. Era quanto gli aveva suggerito con parole accorate in una lettera alla fine del 1990 Norberto Bobbio: «Con l’autorità che ti viene dall’essere stato per quattro anni presidente del Consiglio e ora dal prestigioso incarico internazionale alle Nazioni Unite, puoi avviare un fecondo dialogo a sinistra per cercare di aiutare il corso della storia italiana e interrompere il sempre più insopportabile dominio democristiano. Solo tu puoi farlo». Appare ancora sorprendente che un politico di razza quale fu Craxi non si sia reso conto che il sistema politico italiano e le forze che ne erano state l’architrave fossero ormai giunti alla fine. Spia di questa cecità fu l’invito agli italiani che chiedevano un segno di cambiamento a disertare le urne per il referendum che aboliva la preferenza multipla nelle elezioni nel giugno del 1991. Nella difficoltà a cogliere l’esigenza di un mutamento del sistema politico che, dopo la caduta del Muro di Berlino, si poneva in tempi più rapidi di quelli cui probabilmente pensava Craxi, vanno rintracciate le cause della crisi irreversibile che colpì i socialisti. Il Psi che aveva avuto il merito di porre per primo il tema della riforma dell’assetto politico istituzionale del paese, ripiegò, nella seconda metà degli anni ottanta, sul mantenimento dello statu quo politico e istituzionale. Quello che era stato il partito della grande riforma finì per identificarsi con un sistema in crisi e precludersi la possibilità di intercettare l’onda crescente di dissenso che montava.
La polemica infinita di quegli tra comunisti e socialisti coinvolse anche una persona che era e resterà per sempre un orgoglio per gli italiani: Giovanni Falcone. In appendice al suo libro se ne parla a proposito della difesa che ne fece Gerardo Chiaromonte, esponente riformista del Pci, già presidente della Commissione Antimafia.
Giovanni Falcone era un magistrato che aveva dato prova di sé nella lotta contro la mafia anche a rischio della vita, credeva nelle sue idee lavorava per realizzarle. Gerardo Chiaromonte comprese la importanza della strategia di lotta alla criminalità organizzata sostenuta da Falcone. Un disegno che nasceva sia dalla esperienza vissuta dal magistrato con il pool di Palermo sia dai suoi convincimenti circa gli assetti della Magistratura. Al ministero di Grazia e Giustizia con Claudio Martelli ministro provò a fare andare avanti il progetto di un organismo che potesse con maggiore efficacia condurre il contrasto alla mafia. Martelli avrà la intelligenza di intendere la portata del progetto di Falcone e di sostenerlo. Molti ostacolarono Falcone: contrastarono la sua nomina a procuratore della Direzione nazionale antimafia, boicottarono la sua elezione al Csm, lo calunniarono quando decise di accettare l’invito di Martelli ad assumere l’incarico di direttore generale del ministero di Grazia e Giustizia. Il Pds non lo difese come sarebbe stato necessario fare. Una macchia nella storia di quel partito. Lo fece un riformista coraggioso e intelligente come Gerardo Chiaromonte.
Giorgio Napolitano, presidente emerito della Repubblica Italiana e primo ad essere eletto per due mandati. È stato il suo riferimento nel PCI, qual è stata la sua qualità migliore come ministro degli Esteri del PCI e quale quella da Presidente della Repubblica?
Giorgio Napolitano intuì per primo, seguendo le tracce del lavoro di Giorgio Amendola, il carattere strategico della scelta europeista per il Pci e per gli eredi di quel partito, Pds, Ds e Pd. Non solo. Per Napolitano i due assi della politica estera del partito erano la partecipazione alla integrazione europea e la dimensione atlantica, vale a dire il rapporto con gli Usa. L’approdo del Pci all’europeismo costituì di fatto la più radicale rottura con il suo bagaglio ideologico originario, con la sua visione rivoluzionaria di matrice leninista. Altiero Spinelli fu la personalità intellettuale che, insieme a Norberto Bobbio, ebbe più influenza sugli sviluppi delle posizioni politiche e intellettuali di Giorgio Napolitano. Come presidente della Repubblica credo sia stato grazie alla sua energica iniziativa che il Paese riuscì ad affrontare il passaggio dell’autunno 2011 quando l’intreccio tra crisi finanziaria e collasso politico istituzionale sembrava condurre l’Italia al fallimento. Giorgio Napolitano è stato un grande presidente della Repubblica.
In principio fu il PCI. Poi il PDS. Successivamente i DS. E oggi?
Il Pd non è stato una invenzione estemporanea e contingente, senza futuro. Forse aveva ragione Pietro Scoppola che non credeva molto alla formula dei riformismi che si incontrano perché «di riformismo in questo Paese ce ne è stato poco». In realtà, la fusione tra le culture politiche che diedero vita al Pd si è mostrata una operazione estremamente complessa, occorreva spostare in profondità, a livello culturale il processo di fusione ritrovando un cemento politico ideale in grado di tenere insieme il partito al di là delle differenze inevitabili in una formazione pluralista. Non appare una via d’uscita dai problemi in cui si dibatte il Pd rientrare nell’alveo di esperienze tradizionali quasi bastasse ripristinare abitudini e vecchi modelli per venirne fuori. Il Pd dovrebbe recuperare il progetto di partito a vocazione maggioritaria: una forza capace di guardare al di là della propria storia, che punti ad insediarsi in uno spazio politico più largo del bacino di consenso originario. Che sappia trasmettere l’urgenza di riforme indispensabili a liberare la società italiana dai vincoli corporativi che ne frenano la crescita, rallentano la concorrenza e, alla fine dei conti, impediscono una sana mobilità sociale e quindi una vera uguaglianza tra i cittadini. Vocazione maggioritaria comporta coraggiose innovazioni nella cultura politica del Pd. Quell’insieme di idee condivise che permette di orientarsi in una realtà sociale sempre più complessa e di elaborare un progetto politico capace di mobilitare forze, intelligenze, passioni. Una cultura politica che si manifesti attraverso due tonalità: quella liberale, del riconoscimento dei meriti e della uguaglianza delle opportunità per le persone; quella socialista incentrata sull’idea di equità sociale e sulla riduzione delle diseguaglianze. Ragionando così la sinistra fa propri i tratti di quel liberalismo progressista che si batte perché i meriti e i talenti siano riconosciuti e sia permesso a tutti di raggiungere un tenore di vita adeguato.
Umberto Ranieri, Eravamo comunisti, Rubbettino, Soveria Mannelli 2020