Alla fine del 2022 abbiamo ospitato una riflessione di Isidoro Davide Mortellaro che a partire dal suo ultimo libro, A che punto è la notte, fa luce sugli accadimenti che riguardano il mondo in cui viviamo. «È notte piena sul mondo», scriveva in uno capoverso. Cosa è cambiato in quattro mesi?
Antonio Cantaro ci aiuta a capire se è cambiato qualcosa in questi quattro mesi…
Oggi e qui non presentiamo un libro di Mortellaro. Isidoro ne ha già scritti altri. Oggi non presentiamo un suo libro. Oggi presentiamo il libro di Mortellaro. L’impresa per ogni autore più affascinante e desiderata, ma anche la più temuta.
L’impresa a cui ogni autore, e Isidoro è un autore nel senso autentico del termine, sa di non potersi sottrarre ma che non vorrebbe mai portare a termine. Troppo forte è il timore di arrivare nudi alla meta.
Questo tormento è raccontato, con autentica sincerità, nella nitida confessione contenuta nelle essenziali e nitide righe della prefazione. «Per anni, confessa Isidoro, ho scritto questo libro. Mai pubblicato, sempre incompiuto. A frenarmi dal darlo alle stampe, non tanto la voglia di approfondire. Ha pesato soprattutto la mancanza di una committenza, di una platea a cui dedicarlo».
Isidoro sa bene che anche i nipotini a cui il libro è idealmente dedicato non leggeranno le oltre 300 pagine che lo compongono. E non lo leggeranno non per via del metaverso, ma per la fondamentale ragione che quelle pagine «dipingono un mondo non bello», che ai tuoi nipoti è riservato un mondo più aspro di quello che hai attraversato.
Perché, dunque, il nostro autore ha rotto gli indugi? Perché Isidoro è appunto un autore e da autentico autore crede profondamente che, malgrado e oltre le apparenze, nel sottosuolo premono forze profonde «che vogliono venir fuori, per indirizzarlo altrove dalla corsa rovinosa che oggi lo muove».
Indagare nel sottosuolo, scavarci dentro, è questo il beneficamente disorientante sentimento che prende il lettore dalla prima all’ultima riga. Il libro di Isidoro è, infatti, un’opera miniera, una fonte inesauribile di chiavi di lettura del mondo. Un filone d’oro, una fonte di facile arricchimento intellettuale su «La vita e i tempi del Terzo Millennio», come felicemente recita il sottotitolo.
Lo sguardo è lungo. Lungo non solo nel senso dello sguardo dello storico e dell’intellettuale autentico, merce sempre più rara. Ma nell’ingraiano senso di chi parla dalla parte e a nome di chi è sconfitto ma mai vinto.
Non si tratta semplicemente di un sentimento. Ma di una convinzione motivata, profonda, razionale. Che è la seguente: anche nella nostra epoca, nell’epoca del capitalismo neoliberale, continuano ad esistere, non solo le classi dirigenti, i poteri costituiti, ma anche i governati, i poteri costituenti protagonisti del secolo breve.
Questi ultimi sono usciti certamente malconci dalla rivoluzione neoconservatrice degli scorsi decenni. Sconfitti appunto, ma non vinti. A patto che riescano a dotarsi di una lettura disincantata del mondo, del mondo come è; e, contestualmente, qui ed ora di un orizzonte di senso che sappia trascenderlo metterlo in forma. È questo il tormento di Isidoro, e non solo il suo.
Ma che cosa è una lettura disincantata del mondo? È dire, senza fronzoli e buonismi, la verità che sperimentiamo quotidianamente.
Dire che «l’umanità e il mondo sono da tempo venuti alle mani, l’una stretta al collo dell’altro». Che viviamo una condizione di guerra permanente, iniziata ben prima della scellerata «operazione militare speciale» del febbraio dello scorso anno. Che viviamo in una «società incivile» che non è frutto di un «destino cinico e baro», ma di una antropologia illusoria.
Una «guerra molecolare» che non è però, alla Caracciolo, inintelligibile. Forse forzo un po’: un mondo in cui il problema non è più solo il capitalismo in sé ma è anche il capitalismo che è in noi. Quella narrativa, continuamente veicolata dai media, dalla c.d. governance, dal marketing, per cui tutto è capitale umano. Quella umanizzazione del capitale e quella capitalizzazione dell’umano contenuta nella profetica diagnosi di Marx richiamata già nella quarta di copertina. Tutto ciò che è solido si scioglie nell’aria.
Quando è iniziato tutto questo? Quando è iniziata l’accelerazione della profezia marxiana?
Quando è calata la notte? Qui il discorso si fa urticante, difficile da digerire non solo a destra ma anche, se non soprattutto, a sinistra.
Perché Isidoro non fa mai sconti. Non allenta mai un millimetro dal rigore della ricostruzione. Si può non concordare sui singoli passaggi, ma gli stereotipi sono banditi dal suo discorso e inchiodano il lettore a fare i conti con i nudi fatti e con l’ideologia. Con la struttura e con la sovrastruttura. In senso gramsciano. Quel pessimismo dell’intelligenza che porta Mortellaro a datare l’origine della vita e dei tempi del terzo millennio alla fine del secondo conflitto mondiale. Nell’eredità del ventesimo secolo, dice più precisamente l’autore.
Devo naturalmente rinviare alle corpose pagine che compongono il volume. Sfidanti e parlanti già nei titoli, nella loro incalzante successione. «Prologo, Atomica, Del conflitto e della guerra civile, Ascoltando il ticcchettio…, Rattrappiti». Ma a costo di qualche forzatura proverò a fornirne degli squarci.
Tra i tanti fili conduttori vi è quello, come ricordavo, delle nuove forme della guerra. Nuove, ma dall’anima antica. Valga per tutte questa limpida pagina: «[…] il passaggio di secolo e millennio ha suonato smentita delle tesi che, dalla fine della “guerra fredda” e della sua dissoluzione nelle macerie del Muro e dell’URSS, pretendevano di individuare una epocale cesura della storia: la fine della guerra come continuazione della politica. Secondo queste vedute, già dalla fine della II guerra mondiale, lo Stato-potenza avrebbe ceduto il passo al Trading State, allo Stato-mercante figlio della interdipendenza […] Da qui la necessità di “un nuovo pensiero” capace di guardare, libero delle categorie “polemologiche” del mondo di ieri, la nuova “morfologia della modernità”, le nuove “antropologie” […] Ammutolite dal golpismo costituente consumato più volte dalla Nato, dagli USA o dalla Russia a danno dell’ONU e del diritto internazionale, queste visioni si sono rivelate deficitarie nell’analisi dei processi e dei soggetti eruttati dalla rottura della gabbia bipolare. Proprio la modernità e le antropologie rivelate dall’ingresso nel Terzo Millennio disvelano una nuova Patologia, tutta iscritta nel dilagare della guerra civile e della lotta di fazione».
Ma a differenza che in passato, osserva Isidoro, «oggi le fazioni del conflitto intestino, tronfie di autistica esibizione di violenza, si producono in azioni spesso prive di motivazioni. Nel globo abitato dallo scoppio molecolare del conflitto il nemico torna ad incombere nella realtà quotidiana della vita. A mano a mano che sbiadiscono i confini rassicuranti oltre i quali un tempo si riconosceva lo straniero, si torna ora a temere chi preme vicino».
Mortellaro rappresenta la catastrofe di una società sempre più incivile a dispetto della stucchevole retorica sulle magnifiche e progressive sorti dei diritti civili di un certo progressismo neoliberale. Eppure nelle sue parole non c’è nessuna concessione al catastrofismo consolatorio e catartico di una certa sinistra delle moltitudini. Sentite cosa dice qualche rigo più in giù.
«La guerra civile molecolare non è inintelligibile e cieca diffusione di violenza. È invito a guardare le nuove linee di faglia che frangono e terremotano il mondo […] Tra i suoi vari effetti la globalizzazione ha anche quello di sconvolgere la geografia del Terzo Mondo, dissolvere la sua compattezza.
Il servo non ha più una chiara visione del padrone. I termini della vecchia hegeliana dialettica si sono complicati. Sono avanzate sulla scena borghesie indigene, potenze regionali. Il Pacifico è ridiventato centro del mondo con le sue nuove «Vie della Seta». Per converso, i vecchi poteri si sono trasformati, quasi liquefatti, invisibili e impalpabili, in ragnatele di bit, filamenti genetici e commi contrattuali. La novità più eclatante è però rappresentata dal fatto che la globalizzazione più che mai rimescola arretratezza e sviluppo, Nord e Sud, riunificandoli nel «tempo unico» del mercato globale e delle sue costrizioni: «a New York come nello Zaire, nelle metropoli come nei paesi sottosviluppati sono sempre più numerosi coloro che vengono espulsi definitivamente dal circuito economico perché non vale più la pena sfruttarli». È qui, su questo terreno, che sorgono le guerre civili, che si determinano le nuove fazioni nella polis globale: attorno alla «lotta per il riconoscimento» di chi è bollato come superfluo».
Questa lotta per il riconoscimento, come ben sa Isidoro, è anche la principale chiave di lettura che attraversa il mio modesto diario intellettuale sulla guerra in Ucraina e in Europa che ho messo in forma in un volumetto dal titolo L’orologio della guerra uscito quasi contestualmente a quello di Isidoro.
Il mio debito, al limite del plagio, è lì confessato e dichiarato. Ma probabilmente il debito più profondo nei confronti dell’opera di Isidoro è contenuto nel sottotitolo che recita Chi ha spento le luci della pace. Un sottotitolo impensabile senza l’opera miniera di Isidoro. A che punto è la notte ne è l’ineludibile premessa come spiego nelle pagine conclusive.
Li prendo le mosse dall’accattivante tesi di Aldo Schiavone, da cui muove anche Mortellaro, che la nascita di una civiltà planetaria è un evento senza precedenti nella storia. Ma a differenza di Mortellaro, Schiavone sottovaluta la strutturale ambivalenza di questo processo di omologazione, la doppia faccia di questa reductio ad unum. L’attuale civiltà planetaria è inciviltà planetaria se da essa non origina quello sviluppo umano integrale al centro, da diversi anni, dei rapporti delle Nazioni Unite e della bergogliana Enciclica Fratelli Tutti. Eppure, chiunque di noi sente sulla propria pelle l’inciviltà della civiltà planetaria che abitiamo quando ci capita di attraversare, con il cuore aperto e in ascolto, una qualsiasi strada di quelle metropoli che Schiavone assume a punte avanzate di una nuova e unificata umanità. Prototipi di una silente e molecolare guerra civile in cui vanno in scena amare e laceranti lotte per la sopravvivenza.
Guerre che sono tutt’altro che un incidente di percorso. Guerre che non nascono, come pensa Schiavone, dalla «retriva resistenza di una sacca di mondo arcaico ed alieno al cosmopolitismo» della tecnica e del capitalismo, dal rifiuto da parte delle civiltà confessionali e autoritarie dell’Oriente dei valori secolari e democratici dell’«Occidente Mondo».
Questa è solo la superficie, la sovra-struttura. In realtà, è proprio la spinta all’unificazione planetaria, accompagnata da macroscopiche diseguaglianze, a «produrre differenza», «località», conflitti cultural/identitari che «si danno ora in uno spazio unico, sconfinato, che fa assumere loro caratteri simili a delle vere e proprie guerre civili». Ovunque le ribellioni e le inimicizie nascono dalle disuguaglianze, scrive Mortellaro ricordando l’antico, profetico, ammonimento aristotelico. Oggi, rileva dal canto suo Francesco, «espressioni come democrazia, libertà, giustizia» sono manipolate, deformate, utilizzate come strumenti di dominio, come titoli vuoti di contenuto «per giustificare qualsiasi azione». Uno sviluppo umano autenticamente integrale esige che sia loro restituito il loro originario significato. Esige di superare «quell’idea delle politiche sociali concepite come una politica verso i poveri, ma mai con i poveri». Ma senza i poveri «la democrazia – incalza Francesco – si atrofizza, diventa un nominalismo, una formalità, perde rappresentatività, va disincarnandosi».
È, insomma, il deficit di democrazia, la sua scarnificazione dalle classi popolari, il carburante di ineguaglianze ed inimicizie. Siamo in buona e santa compagnia.
Se desideriamo che il mondo non precipiti in una guerra civile permanente, dobbiamo tornare a nominare e a mettere in forma la pace. Il pacifismo può tornare ad essere una potenza planetaria, come lo è stato in certi frangenti, solo se supportato da una cultura capace di prendere congedo tanto dalla tirannia dei valori quanto dalla dittatura della geopolitica e della geoeconomia.
La pace è frutto di costruzione, di riconoscimento dell’altro, non di imposizione unilaterale e unidirezionale. Anche nell’odierna civiltà planetaria l’universo è, deve essere, un pluriverso. Ciò che oggi è di ostacolo alla pace non è la mancanza di un’unica leadership globale, ma l’assenza di una condivisione globale della leadership. Premessa e condizione politica e costituzionale indispensabile affinché la maggior parte della popolazione mondiale, dopo secoli di umiliazioni, possa compiutamente uscire da una stazione chiamata sottosviluppo e avanzare in direzione di una stazione chiamata sviluppo, progresso, piena ed eguale dignità.
Etica e politica del riconoscimento. Isidoro sa bene che nessuno dirà bene, accomodatevi. Che l’orologio della guerra verrà fermato a patto che presto scenda in campo un «partito in guerra contro la guerra». Un partito della pace. Le soluzioni alla coreana lasciamole a chi gioca alla guerra come fosse il gioco del Risiko. Quell’ideologia perniciosa che in altre occasioni ho chiamato concretismo, in politica estera non meno che in politica interna. No, noi non siamo gente cinica e seriosa. Noi siamo gente seria.