Un posto al sole: seimila puntate

La scorsa settimana uno dei programmi più longevi della tv italiana, la soap opera Un posto al sole ha festeggiato le sue seimila puntate. Lo ha fatto in modo discreto e originale, affidando la rievocazione delle tante storie che ha intrecciato nei suoi 26 anni di vita a un punto di vista particolare, quello della cagnolina Bricca.

Anche in questa occasione gli autori hanno dimostrato di possedere un bel talento: la capacità di non prendersi troppo sul serio anche nelle occasioni in cui ci sarebbero motivi seri per fare un bilancio approfondito e positivo del proprio lavoro. Infatti, che Un posto al sole sia un caso da osservare con attenzione è ormai fuori di dubbio. Le facili ironie che potevano accompagnare ai suoi esordi questo strano esperimento di un format australiano adattato all’universo napoletano, di un genere, la soap di lunga durata, inesistente nella tradizione italiana, hanno lasciato il campo alle costatazioni non solo di un audience consistente e fedele ma anche a inaspettate ricadute sul piano economico-aziendale e su quello sociale.

Chi ha progettato tra un certo scetticismo questa avventura andata oltre le più ottimistiche aspettative, si chiamava, anzi si chiama Giovanni Minoli e (credetemi, l’ho visto con i miei occhi) quando si tratta di tv ci azzecca sempre. Acquistare un format australiano, napoletanizzarlo, trasformare una sede Rai dai ritmi un po’ rilassati in una factory dai tempi serratissimi e dagli appuntamenti inderogabili non era proprio una scommessa sicura.

È andata bene e oggi in generale, messe da parte ironie e scetticismi, si cercano soprattutto le ragioni del successo. Si va dall’originalità nella rappresentazione della società priva dei classici stereotipi al ruolo degli attori, molto bravi ed empatici che hanno portato con la presenza duratura i loro cambiamenti fisici reali nelle loro vite di finzione, diventando un gruppo di famiglia insieme con gli spettatori.

Al di là di queste doverose osservazioni ci sono due aspetti tipici della lunga serialità che Un posto al sole ha fatto conoscere e interpretato al meglio. Il primo è appunto semplicemente la durata, infinita, forse al di là delle originarie previsioni e intenzioni. La lunga serialità, che è stata talvolta considerata un prodotto di basso livello culturale, in realtà è stata protagonista di una trasformazione fondamentale nella forma della narrazione, una vera rivoluzione copernicana. Da sempre i racconti, tutti i racconti, anche i più lunghi, sono stati organizzati in modo da condurre a una fine, a una soluzione degli intrecci narrati. La lunga serialità ha ribaltato questa tradizione: ciò che accade tende non a portare a una fine ma, al contrario, a far sì che la storia non finisca, che si generino sempre nuove vicende. Sarà solo il destinatario con la sua eventuale disaffezione alla storia a determinarne il momento della fine. Senza esagerare, si può dire che la lunga serialità è stata artefice e protagonista di una nuova prospettiva nella dimensione fabulatoria. Il fascino di Un posto al sole sta nell’aver collocato questa prospettiva in una versione concreta, italiana, partenopea e di aver sperimentato, grazie ai vari pregi, la possibilità dell’infinitezza.

Il secondo aspetto di grande fascino che Un posto al sole presenta riguarda l’uso molto particolare della temporalità. In questo tipo racconto il tempo fittizio delle vicende narrate coincide perfettamente con il tempo reale dei destinatari. Mi spiego: se quello che accade in una puntata si svolge a Natale, quella puntata va in onda il giorno di Natale. L’esito di questa soluzione è un rafforzamento di quella che i teorici chiamavano l’illusione di realtà propria dell’immagine audiovisiva, un’immedesimazione sempre più intensa nelle vicende di personaggi che stanno vivendo lo stesso tempo che vivono gli spettatori: se è reale quel tempo sarà reale anche ciò che in quel tempo accade.

E come si può negare la propria partecipazione a qualcosa che si sovrappone così precisamente alle nostre vite?

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