Una vita, una scintilla. Per Emanuele Macaluso

Pubblichiamo l’orazione che il Ministro Giuseppe Provenzano ha tenuto alla commemorazione pubblica per Emanuele Macaluso, presso la sede nazionale della CGIL. Un atto di amore e di riconoscenza nei confronti di un uomo che ha impiegato bene la sua vita. Un atto di amore nei confronti della politica, senza la quale niente è possibile.


Era come andare a prendere l’acqua al pozzo. Lo capii quando tirò fuori quel proverbio cinese, che vale per la politica non meno che per la vita di ogni giorno: «chi prende l’acqua da un pozzo, non dovrebbe dimenticare chi l’ha scavato». Emanuele Macaluso non dimenticava nulla, non dimenticava mai. Non si può dimenticare. Ma per chi l’ha conosciuto il problema non è questo. Il problema è come andare ancora al pozzo, ancora all’acqua.

La prima volta l’incontrai per il suo libro più bello, l’autobiografia sui Cinquant’anni nel Pci. Era l’inizio del 2004, a Livorno. Una sera d’inverno, c’era un forte vento. Io arrivavo da Pisa, dove studiavo da un paio d’anni. Eravamo un gruppo di amici e compagni, intellettuali e militanti. A parlarne invitarono me, siciliano, della provincia di Caltanissetta, la sua. Quel libro mi svelò un mondo, un certo modo di stare al mondo. Alla fine della discussione mi chiamò. «Di dove sei?» Di Milena, risposi. «Milocca, vuoi dire!», disse richiamando il nome antico, che pochi conoscono, del mio paesello, poco conosciuto di suo. «Ci ho fatto il mio primo comizio. Per la Repubblica. Su un balcone, di fronte la chiesa madre. Ricordo una piazza piena di donne, col fazzoletto rosso. Ero giovane. Feci un discorso molto acceso contro la Monarchia. Quando finii si avvicinò il Maresciallo dei Carabinieri. Dalla prima all’ultima parola, disse, ho avuto la tentazione di spararle in fronte. La ringrazio per non averlo fatto, dissi. E me ne andai». Rise, Emanuele. Come rideva lui.

Il giorno dopo, ne scrisse. Ma dopo quell’incontro, dopo un incontro così, giurai di non lasciarlo più. È stato un maestro, per me che appartengo a una generazione senza maestri. E presto sarebbe diventato qualcosa di più e di diverso. Un riferimento vitale.

Lui mi chiedeva dell’oggi, io della Caltanissetta del fascismo e della guerra. In quel mondo di miseria e sfruttamento maturarono i suoi sentimenti, le sue domande, la sua vocazione politica. Vedeva giovani senza speranza, muratori alcolizzati, disoccupati. Come faranno a vivere? Vicini e parenti che partivano per la Spagna. Perché vanno a morire là? Minucu, il compagno di giochi nel cortile figlio di uno zolfataro che quando tornava dalla miniera, una volta la settimana, puzzava di vino e lo riempiva di botte. Cosa riduceva un uomo così, a una bestia?

Le letture arrivarono dopo, I miserabili, La madre di Gorkij, Tolstoj. E quel travaglio confidato a un compagno più grande, che andò a trovarlo in sanatorio, un atto di coraggio che gli parve più grande persino di quei discorsi antifascisti e socialisteggianti che andavano facendo.

C’era la sua indole – da rompicoglioni, avrebbe detto lui – che l’ha accompagnato per tutta la vita. Quel non accontentarsi mai di quello che passa il convento, anche quando il convento era il suo Partito. Aveva un innato spirito di contraddizione, per ciò che gli pareva ingiusto o, peggio, insensato. Così fu per il fascismo, la provincia feudale, la fede: ebbe un periodo valdese, Emanuele, per contestare meglio la chiesa cattolica dove pure aveva incontrato un padre nobile della Dc siciliana, l’avvocato Giuseppe Alessi, di cui ascoltava le prediche in cattedrale perché «parlando di religione, parlava di libertà».

La ricerca della libertà, in quella Sicilia dei primi anni quaranta, era una cosa sola con la giustizia e l’uguaglianza. Fu così che divenne comunista, senza sapere nulla di Gramsci e Togliatti, di Lenin e Marx. I comunisti erano quelli più coerenti, uomini esemplari come Calogero Boccadutri, Pompeo Colajanni, Girolamo Li Causi.

Boccadutri era il mitico capocellula, volle bene a lui e ai suoi figli, Nicola e Franco, come ai propri figli, Antonio e Pompeo. Ma era stato proprio lui il primo a contrastarlo quando s’innamorò di Lina, già sposata con due figli. Macaluso era intelligentissimo, lo sanno tutti. Era anche elegantissimo, nelle foto di allora. I signorotti non sopportavano l’affronto di quel giovane comunista. Convinsero quel marito disgraziato a denunciarli. Finirono in galera, per adulterio. Quell’amore avrebbe messo sempre in difficoltà il partito, e perciò il partito dei Boccadutri sarebbe sempre stato contro.

Fu così che Macaluso andò al sindacato dove «c’era allora più libertà […] E io, la mia, l’ho sempre difesa». A 23 anni divenne il primo segretario della Cgil siciliana, la Cgil unitaria, scelto da Giuseppe Di Vittorio in persona, a Caltanissetta. Primo organizzatore delle lotte per le terra, in cui caddero per mano mafiosa 36 indimenticati capilega che, lo ripeteva sempre, non ebbero giustizia.

«A pensare oggi a quegli anni mi pare che mai più avrò nella mia vita sentimenti così intensi, così puri. Mai più ritroverò così tersa misura di amore e di odio; né l’amicizia la sincerità la fiducia avranno così viva luce nel mio cuore». È la frase di Leonardo Sciascia, che Emanuele ripeteva ripensando all’epopea di quegli anni.

Oggi siamo qui perché fu nel sindacato che divenne uomo e politico. Tra repressioni, violenze e stragi, lottò per affermare leggi più giuste e nuove classi dirigenti, i principi costituzionali contro i residui feudali. Sulle sue spalle gravò tutto il peso di un compito storico che uomini, poco più che ragazzi, come lui, seppero assolvere: la difficile costruzione della democrazia italiana. Tutti, oggi, di questo, dobbiamo ringraziarlo.

Nel ’56, proprio nei giorni drammatici dell’Ungheria, lasciò la Cgil di Di Vittorio, cui era molto legato e che se ne lamentò, per passare al partito, per volere di Togliatti. Dalla Sicilia, divenne un protagonista nazionale con l’operazione Milazzo, che in un solo colpo ruppe il monopolio di governo della Dc, gli equilibri internazionali e l’unità dei cattolici. La reazione di apparati e Vaticano fu dura. In quegli anni, crebbe il suo rapporto con il Migliore, che lo chiamò nella segreteria nazionale. Per nessun altro uomo politico, Emanuele, proverà la stessa ammirazione.

Nel giorno della ricorrenza dei Cent’anni della scissione di Livorno, si deve richiamare quel suo convincimento, che lo vide discutere criticamente con gli storici, anche i più vicini, i più amici, come Luciano Cafagna e Massimo Salvadori. Tra mille contraddizioni e ambiguità, colpevoli omissioni e mancate autocritiche, nella via italiana al socialismo, nella scelta democratica e gradualista impressa da Togliatti al ritorno in Italia, con la svolta di Salerno e la Costituente, Emanuele vedeva un leader che collocava il suo Partito nuovo nel solco del riformismo. È il cuore del suo libro, Comunisti e Riformisti, in cui analizza atti, fatti e discorsi a sostegno di questa tesi. Riporta anche quelli di Turati, per mostrare l’affinità a una personalità a cui tuttavia i comunisti negarono sempre il ruolo storico. Macaluso richiama la definizione di Amendola, tanto suggestiva sul piano politico quanto discutibile su quello storiografico, secondo cui Livorno fu un «errore provvidenziale». Di colpo, però, lascia cadere un giudizio secco di Umberto Terracini – il primo dirigente comunista di cui Macaluso sentì parlare da ragazzo, a cui lo legano diverse affinità: «Turati nel ’21 aveva ragione». Cosa avrebbe detto oggi, Emanuele? Lo leggeremo forse nelle pagine di una sua conversazione recente con Claudio Petruccioli. Ma lui, comunista italiano mai pentito, non avrebbe certo festeggiato la scissione.

Sul riformismo di Macaluso vorrei dire qualcosa che va al di là del coraggio che ebbe nella discussione interna al Pci, del rapporto con Berlinguer, del legame con i socialisti, della volontà di investire l’eredità del comunismo italiano, con Giorgio Napolitano, nella socialdemocrazia europea. [Vorrei ricordare il riformismo coltivato nelle istituzioni regionali e nazionali, come pratica di governo per lui che incarichi di governo non ne ebbe mai. La riforma agraria fu anticipata in Sicilia, come le leggi per l’industrializzazione e altre iniziative meridionaliste, su suo impulso. Da presidente della Commissione agricoltura negli anni del compromesso storico avviò la nuova politica agricola comunitaria. Nella sua legge sulla ricostruzione del Terremoto del Friuli Venezia Giulia vi è l’embrione della nostra Protezione civile].

Il suo riformismo scaturiva sempre da grandi battaglie sociali, sindacali, popolari. Fu così anche per il suo compagno più caro, Pio La Torre, che succedette a Macaluso in tutti gli incarichi in Sicilia. Un fratello minore, una perdita che lo segnò per la vita. Testimone, come lui, di quella capacità smarrita dalla politica di chiamare le cose col loro nome, di essere politici «concreti» senza rinunciare a una fortissima tensione ideale. Un riformismo che non è sinonimo di moderatismo, può essere persino il suo contrario.

È nel popolo la radice salda del riformismo di Macaluso, la peculiarità del suo «migliorismo». Non una teoria, ma «una battaglia quotidiana per il graduale miglioramento delle condizioni di vita», perché ai più deboli non giova mai il «tanto peggio, tanto meglio». Una pratica politica, misura dei rapporti di forza, non una revisione ideologica verso il liberalismo, operata invece da altri, a sinistra: alcuni con rigore e serietà, altri con la solerzia dei novizi, con la frenesia di quei tizi che corrono a prendere il primo treno dopo aver perso il precedente.

Del resto, a Macaluso non servivano ideologie per sposare una cultura dei diritti che ha a che fare con la sua stessa vita, con le passioni e il temperamento del più eretico, del più tollerante, e del meno bigotto dei togliattiani. E le posizioni sui diritti civili, sulla giustizia, sulle carceri, che lo legarono negli anni in un rapporto speciale coi radicali, sono lì a testimoniarlo.

La politica è stata per lui un «bisogno di vita» e alla vita è tornato sempre per nutrirla, senza dottrinarismi, lottando anche in un corpo rigido, cercando la contaminazione e a volte la dissacrazione: tutte cose che rendono la cultura e la politica veramente popolare, non un privilegio di classe o di ceto.

La caduta del Muro e la fine del Pci coincisero con l’interruzione dell’impegno istituzionale di Macaluso. Fuori dal Parlamento e dalle Botteghe oscure inizia una stagione nuova della sua vita attiva. Fu una specie di liberazione per la sua indole polemica, che pure aveva esercitato sempre, anche da dirigente, nei corsivi a cui Giorgio Frasca Polara diede la firma em.ma. Sono gli anni della scrittura più acuminata, degli editoriali, della direzione di riviste e giornali.

Quel passaggio fu segnato anche dalla morte di Leonardo Sciascia. Sciascia, dopo la morte di Pasolini, come investito di una eredità speciale, scrisse: «Dicevamo quasi le stesse cose, ma io sommessamente. Da quando non c’è lui mi sono accorto, mi accorgo, di parlare più forte». Qualcosa di simile, a mio avviso, è accaduto a Macaluso con Sciascia.

Dopo la morte dello scrittore di Racalmuto, Macaluso sente il dovere di far vivere le idee sulla giustizia, un «cordone ombelicale» che li ha legati per oltre sessant’anni, tra fatti pubblici e privati di ingiustizia patita, ma «parlando più forte».

Fuori dalle stanze della massima responsabilità politica, si sente libero di dire sempre la verità, anche quando è scomoda, anche quando non è rivoluzionaria. Per questa via, anche Emanuele è diventato un po’ «eretico», a sinistra. Fino alla scomunica, come nella polemica sul processo Andreotti. Perché, si sa, «gli eretici sono sempre più colpiti che gli infedeli».

Allora lui combatteva più forte. Perché sui diritti e la giustizia parlava con la franchezza che può permettersi soltanto un campione dell’antimafia. E lui lo era. Di quella vera, non quella parolaia dei professionisti o dei dilettanti. Quella che è stata lotta politica e sociale, fino allo scontro fisico nei feudi coi gabelloti, alle bombe e alle schioppettate di Villalba.

Fu garantista fino al midollo, come chi ha conosciuto la galera, le troppe storie di ingiustizia dentro la storia della giustizia italiana. «Né mafia né Mori», per sempre. Fu nemico del giustizialismo, soprattutto a sinistra, perché vi vedeva non solo un cedimento culturale rispetto ai valori fondanti, ma anche il venir meno dell’ancoraggio alla giustizia sociale che è la vera sostanza della giustizia. Di più, vi vedeva il riaffiorare di quelle scorciatoie massimaliste che aveva sempre combattuto nella vita, ma peggio: un massimalismo non di campi e officine ma di manette e aule di tribunale; un massimalismo senza popolo, senza sinistra.

Cominciai a frequentarlo, a collaborare con lui, negli anni in cui cercava nuove Ragioni del Socialismo. Alla Rivista, a Torre Argentina. Lo seguii al Riformista, un’ironia quella sede dov’era Rinascita, a Botteghe Oscure. Negli ultimi anni, l’appuntamento fisso era una convocazione: «Venerdì, alla Torricella».

Mi chiedeva del Mezzogiorno, e anche delle cose più minute della politica. È rimasto sempre un dirigente politico. Ascoltavo le sue opinioni e anche le sue freddure sulle cose, gli uomini e i mezz’uomini della politica, e della sinistra.

Era un privilegio troppo grande, e andava condiviso. Nacque così, con Sergio Sergi, l’idea di una pagina su facebook. Certo, non avremmo immaginato che avrebbe scritto quasi tutti i giorni. Un onore, ma anche un onere. Soprattutto per Sergio, a cui al crescere dei miei impegni ho lasciato interamente la responsabilità. «Se non scrivo, se non comunico quello che penso, per me è come morire». Era vero anche il contrario. Se scriveva, viveva. E allora scrivi, gli dissi quando vidi quel monumento vivente crollare, di fronte al lutto più grande, che nessun uomo dovrebbe provare, la perdita del figlio Pompeo.

Diceva che era pessimista, la realtà della politica e della sinistra gli sembrava pessima, ma compiva un atto quotidiano di ottimismo continuando a scrivere. È stato un faro, anche per tanti giovani. Che nel gioco delle generazioni hanno guardato a lui, come ad altri grandi vecchi della Repubblica. Saltando la generazione dei padri per andare a quelli dei nonni, per risalire al senso delle loro scelte di vita, alla serietà nella battaglia delle idee e alla cura nelle relazioni sociali, per ritrovare un bisogno insoddisfatto di politica. E qui che la testimonianza di Macaluso ha assunto un valore speciale, perché esprimeva in ogni sillaba, in ogni accento, la questione sociale, che è tornata a riproporsi in forme nuove, lontane dalla miseria che fu, ma non meno gravi.

Emanuele mi ha seguito, con la giusta distanza, nel percorso politico. In quel PD a cui non aveva mai aderito, che aveva fortemente criticato alla nascita con molti argomenti, ma in cui non vedeva alternative ad impegnarsi, e per cui ha contestato severamente tutte le scissioni.

Dopo la disfatta del 2018, partecipò a diverse iniziative insieme a giovani compagne e compagni. Ne ricavò una qualche speranza. Ma subito ci ammonì. Ci vuole la battaglia politica! Dove la fate? Con quali riviste? In quali luoghi?

Il dialogo con i più giovani, è stata la sua ultima semina. Un incitamento all’impegno, alla lotta, anche sul web. Ha trasmesso la memoria di uomini e cose, la capacità di guardare al mondo, alle sue contraddizioni e tragedie, la guerra e la pace, una lettura critica del capitalismo, l’ambiente, le migrazioni, l’uguaglianza nella libertà, l’anima della sinistra. È stato un maestro, Macaluso, per tutti coloro che, ad ogni età, dall’alto della sua, lui chiamava: «Giovane».

Un maestro di vita e di socialismo. Di un socialismo che precedeva le forme storiche che aveva assunto nel secolo scorso, e vi sopravviveva. Raccoglieva un insieme di istanze di trasformazione del mondo in funzione dell’interesse collettivo e non dell’egoismo individuale. Le aspirazioni a una sorte meno crudele e più umana per tutti. I «nuclei vitali» di una sinistra, più antica, molto più antica, anche del suo Pci, e più nuova, molto più nuova, delle forme che ha preso dopo.

Era, ed è, il suo, un socialismo possibile. In cui tutto ciò che si può fare per migliorare la condizioni di vita dei molti, anziché dei pochi, va fatto. E lui lo ha fatto. Per una vita, la stessa scintilla. E sì, certo, ne è valsa la pena.

Ha avuto una gran vita, vittorie e sconfitte, grandi amori e grandissimi dolori. È stato generoso nel raccontarli. Alcuni, li ha solo confidati. Molte volte mi ha chiesto di accompagnarlo. Alla presentazione di un libro, a un convegno, per un viaggio. L’ultimo fu in Sicilia, un anno e mezzo fa. Per un ultimo comizio a Portella della Ginestra, dove aveva tenuto il primo dopo la Strage. Sapeva che non sarebbe più tornato. Parlò a braccio, come sempre. Ma un po’ più a lungo. Ricordò braccianti, operai dei cantieri navali e zolfatari senza paga per i giorni e i mesi delle lotte, degli scioperi. Ricordò le notti senza pace e senza sonno, «Come credete che potessi dormire?», le sere di quelle famiglie affamate, il povero cibo recuperato a credito nei paesi. Ricordò i compagni uccisi, «Non vi abbiamo dimenticato», gridò.

Lo commuoveva la frase di uno scrittore che amava, Joseph Roth. «La gente della mia terra ha una buona memoria perché ricorda con il cuore». Macaluso, così duro, così pungente, così intelligente, aveva buona memoria perché ricordava con il cuore. E non ha mai smesso.

Il virus lo ha risparmiato, ma la pandemia lo ha colpito al cuore. Ha patito su di sé la sorte del Paese. I mesi del primo lockdown sono stati atroci. Si affacciava sulla Piazza, a Testaccio, non vedeva i bambini che giocavano. Per me, diceva, è come essere morto. Vivo una condizione di premorte. Ho l’affanno. Lo aveva salvato la montagna questa estate, come sempre. Lo raggiungevamo. L’anno scorso ci aveva regalato un piccolo miracolo domestico, coi primi passi di Caterina – «che nome da zarina», si lamentò quando nacque. Lo abbiamo raggiunto anche quest’anno. Giovanni lo chiamava Yoda, come il maestro Jedi. Oppure, «il tuo allenatore», con una specie di malizia. Gli mancava l’amico Giorgio, quest’anno. Era triste. Si era ripreso, però. Era stato bene.

La seconda ondata della pandemia lo ha travolto. Ha cominciato a lasciarci, come aveva avvertito, quando ha smesso di scrivere. «Di che scrivo? Si parla solo di Covid. La politica è morta». Mi arrabbiai molto, per quella frase. Litigammo. Lo portai l’ultima volta a pranzo alla Torricella, a metà dicembre. Provai a convincerlo di quanta politica ci fosse in realtà in questo momento, di quanta ne servisse per superarla. Che proprio uno come lui, con la sua gran vita e il secolo alle spalle, non dovrebbe pronunciare quelle parole. Che non era tempo di smettere di combattere. Fu felice, di quella discussione. «Non sparire», mi disse. Mi rimproverava sempre. Mi diceva di peggio. Ci promettemmo di riprendere alcune nostre conversazioni registrate, sulla politica, sulla sinistra, sulla Sicilia, che andavano avanti da anni. Non ce l’abbiamo fatta.

Sotto gli alberi di quella grande piazza, a Testaccio, tra le urla dei bambini e i sorrisi degli abitanti del quartiere, il grande vecchio mi prendeva sotto braccio, mi insegnava che bisogna sempre guardare non solo ai bisogni delle persone, ma anche ai loro desideri. Non solo alle sofferenze, ma alle loro gioie.

Ha partecipato fino all’ultimo alla sorte del popolo. Ha condiviso l’angoscia di troppi anziani di morire in questo tempo triste. La sofferenza di una certa solitudine in ospedale per le restrizioni. Ha avuto la fortuna di essere accompagnato dall’amore, dalla pazienza di Enza. L’ultima volta, l’ho visto domenica. Abbiamo parlato solo di politica. Dopo che ero andato, mi ha chiamato. «Ho letto che è morto Stefano Vilardo», un grande poeta, il migliore amico di Leonardo Sciascia, «vedi di ricordarlo». Lunedì mi ha chiamato ancora, dal telefono di Jolanda. Per un ultimo straziante saluto. Nella notte, se ne è andato. Da solo, come tanti. Ne parlavamo. Non doveva morire così. Nessuno dovrebbe di morire così.

Ci consola sapere che è stato lui, fino in fondo. Un combattente, fino alla fine. Ora, sarà più difficile. Dovremo continuare in ciò che è giusto, tener fede al suo volere. Combattendo, parlando più forte. Anche per lui.

Lo piange la sua famiglia, Antonio, Enza, Anna, Emanuele, Claudia, Claudio, gli amati nipoti, Emiliano che è lontano. Lo piangono i compagni, gli amici di una vita, quelli che il 21 marzo non sapranno come festeggiare la primavera, tutti coloro che lo considerano un maestro.

Per me è stato come un padre. Un padre, in una Patria sempre più povera di padri. Ma non si resta orfani di padri come lui. Noi non siamo orfani. Una storia così, dallo zolfo alle stelle, è una storia che non muore.

Si spegne il faro. Resta la scintilla. Per quel poco o tanto di lume, che ha fatto o che farà, in questa vita, la luce è sua.

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