Un’Europa federale per costruire la pace

L’invasione russa ha comportato la forte e nel contempo accorata richiesta del governo ucraino di entrare nell’Unione Europea (UE) evidentemente a garanzia della stessa sopravvivenza dello Stato. Attualmente l’Ucraina ha un accordo di associazione con l’Unione, entrato in vigore nel 2017, che prevede l’istituzione progressiva di una zona di libero scambio e l’avvicinamento delle legislazioni sulla base di valori comuni, legami privilegiati nonché la collaborazione nel settore energetico. E con l’aumento dei timori legati al conflitto anche la Moldavia e la Georgia hanno presentato ufficialmente la loro candidatura.

L’ingresso nell’UE attribuirebbe all’Ucraina la necessaria solidarietà in quanto l’articolo 42, par. 7 del Trattato UE dispone che «Se uno Stato membro è oggetto di un’aggressione armata sul suo territorio, gli altri Stati membri gli dovranno aiuto e assistenza con tutti i mezzi a loro disposizione, in conformità con l’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite».

 Tuttavia, il processo di adesione è lungo e complesso. Ufficialmente, gli Stati candidati a entrare nell’UE sono al momento Albania, Repubblica di Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia e Turchia (quest’ultima dal 1999!); inoltre è stata promessa la possibilità di aderire «quando saranno pronti» anche a Bosnia-Erzegovina e Kosovo. D’altronde nel 2014 il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione in cui si sottolinea che anche gli ex Paesi dell’Unione Sovietica hanno una prospettiva europea e possono presentare domanda di adesione seguendo le tre repubbliche baltiche Estonia, Lettonia e Lituania già membri dell’UE.

Evidentemente questi Stati riconoscono nell’Unione europea una garanzia di stabilità e indipendenza che non è assolutamente contraddittoria con la necessità, una volta entrati, di trasferire poteri sovrani alle istituzioni comunitarie. Non bisogna confondere, infatti,  indipendenza e sovranità: cedere quote della prima aiuta a difendere la seconda se questa si fonda su principi democratici; e l’UE non è un soggetto autoritario e prepotente che limita l’indipendenza degli Stati nazionali ma una realtà che, al contrario, ne rafforza la sovranità in quanto condivisa e sempre preferibile ad una isolata e indebolita. Il processo d’integrazione europea nasce proprio dalla matura consapevolezza che nella società contemporanea è necessario attrezzarsi in modo che l’esercizio di poteri democratici si svolga in un ambito territoriale più ampio e significativo.

Nella crisi in atto Putin non teme realmente di essere accerchiato dalla Nato (anche se l’Ucraina nella nuova Costituzione del 2019 aveva reso legittimo l’ingresso nella stessa) e quindi di subire attacchi militari; questi presuppongono una volontà di guerra che è ben lontana dal carattere identitario della pace che contraddistingue l’UE e i Paesi ad essa aderenti.

Il dittatore russo, in una logica vetero imperiale e sulla base di una lettura della storia ormai superata, considera ancora molti Stati dell’Europa orientale quali propri satelliti attuali o potenziali; ha quindi il terrore della capacità di attrazione esercitata su di essi da parte dell’Unione europea che si presenta come modello, di gran lunga preferibile, di democrazia, tutela dei diritti fondamentali e legalità internazionale.

E la scelta di Putin di uscire dal Consiglio d’Europa, dal quale la Russia era stata peraltro già sospesa nei giorni scorsi, conferma la volontà di isolamento e allontanamento dai valori alti espressi da questa organizzazione. Il Consiglio d’Europa, nato nel 1948 e composto fino a ieri da 47 Stati, ha prodotto fra gli altri un testo di centrale importanza come la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. D’altronde da chi scatena una guerra incurante del valore della vita, il primo ma non unico diritto da essa cancellato, non ci si può aspettare nulla di diverso.

Per un dittatore che si è assicurato formalmente il proprio potere fino al 2036 si tratta di una prospettiva inaccettabile ed un pericoloso riferimento anche per il popolo russo ed il suo dissenso interno, la cui profondità non è facile per noi misurare ma che sta crescendo in funzione del pacifismo.

L’ulteriore bavaglio sulla libertà di informazione evidenzia peraltro un’evidente preoccupazione. Di qui il ricorso all’antico e solito strumento di persuasione della guerra.

 Ma, si diceva, l’adesione all’UE è giustamente un cammino complesso che richiede tempo. La presentazione della candidatura anzitutto presuppone il soddisfacimento dei c.d. «criteri di Copenaghen» dati da un’economia di mercato, dalla stabilità della democrazia, dallo Stato di diritto e, ove esistenti le condizioni, dall’introduzione dell’euro.

La richiesta viene sottoposta al Consiglio (dei ministri), che chiede alla Commissione di valutare la capacità del Paese candidato di soddisfare i suddetti criteri di Copenaghen.

Se la Commissione fornisce parere positivo, il Consiglio delibera all’unanimità, previa accettazione a maggioranza del Parlamento europeo, e avvia ufficialmente i negoziati, che procedono settore per settore in funzione della ingente mole di legislazione europea che il candidato deve recepire nel proprio ordinamento nazionale.

Comunque, durante il periodo di preadesione il Paese candidato beneficia di aiuti a livello finanziario amministrativo e tecnico ma deve portare a termine un profondo processo di riforma, ad esempio, migliorando le proprie infrastrutture e capacità amministrative alla luce dell’attuazione di una nuova legislazione conforme al corpus legislativo dell’Unione europea (denominato acquis).

La procedura si conclude con un Accordo firmato da tutti gli Stati membri il cui testo viene poi sottoposto alla ratifica di ciascuno di essi, secondo le procedure costituzionali previste.

C’è da precisare che il rispetto di tutti i requisiti richiesti non è semplice soprattutto in democrazie giovani; per di più tale rispetto deve comunque permanere anche quando si è già divenuti Stati membri. La recente sottoposizione dei governi di Polonia e Ungheria a controlli giurisdizionali e le relative sanzioni consistenti nel congelamento delle risorse europee ne sono la palese dimostrazione.

Per tali ragioni, l’ulteriore ampliamento dell’UE ne rafforzerebbe certamente ruolo e forza sullo scenario mondiale. Ma questo non basta. In realtà, il suo protagonismo è soprattutto legato alla capacità di esercitare una politica estera e di difesa comune, sempre nel quadro dei principi della Carta delle Nazioni Unite fondati sul rispetto della sovranità degli Stati, sull’autodeterminazione dei popoli, sull’obbligo di risolvere in modo pacifico le controversie e di non interferire con le competenze interne di altri Stati, sul dovere di astenersi dall’uso della forza.

Tuttavia, ad oggi la politica estera e di sicurezza comune (PESC) è del tutto priva di incisività in quanto appesantita dal fardello del voto all’unanimità in Consiglio (dei ministri). Trovare un’intesa fra 27 Paesi in un settore così complesso è un’impresa improba realizzabile solo in occasione di situazioni gravissime come l’invasione russa; per di più è bene ricordare che il Parlamento europeo, in materia, non dispone di potere decisionale. Ed allora è anzitutto necessario riformare il Trattato di Lisbona eliminando ogni potere di veto con l’esclusione dell’ormai vetusto criterio dell’unanimità nei due Consigli (europeo e dei ministri), espressione di un metodo intergovernativo figlio di altri tempi.

L’obiettivo non può che essere la costruzione di una Europa federale in grado di svolgere un ruolo da protagonista nelle vicende internazionali anche attraverso la realizzazione di una difesa comune, progetto fallito  con la mancata ratifica nel 1954 da parte della Francia del Trattato istitutivo della CED (Comunità Europea della Difesa) nonché il rafforzamento delle altre politiche comuni; si pensi anzitutto all’energia per la quale andrebbe pensato un nuovo debito comune europeo come avvenuto per la crisi pandemica. In tal senso, andrebbe assunta una chiara iniziativa politica utilizzando la solidarietà – sanitaria, sociale ed economica – emersa a seguito del COVID 19 per porla quale perno consolidato della pace e dell’equità nonché del patrimonio culturale e giuridico europeo.

A tal fine va efficacemente utilizzata l’occasione offerta dalla Conferenza sul futuro dell’Europa, i cui lavori dovrebbero in una prima fase chiudersi il 9 maggio, con la speranza di affidare magari un ruolo costituente al Parlamento europeo. È la maniera per dimostrare che l’Unione Europea guarda al futuro mentre la Russia porta ancora sulle spalle il peso del passato.

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