«La libertà, non la discriminazione; la democrazia, non l’autoritarismo; la patria, non il nazionalismo; l’uguaglianza tra i sessi, non il maschilismo; la dignità di ognuno, non il razzismo; la democrazia europea non il sovranismo reazionario; la cooperazione tra i popoli, non la guerra». Sono i principi semplici dell’antifascismo repubblicano e costituzionale, che l’Italia ha conquistato a caro prezzo. Ne spiega genesi e visione Vannino Chiti, ex ministro del Pd, presidente dell’Istituto Storico Toscano della Resistenza e dell’Età Contemporanea, cattolico. Rimettendo le cose in fila, dopo le polemiche accese: l’antifascismo nasce prima della Resistenza, che è stata però la nostra epopea.
La destra nel migliore dei casi ritiene l’antifascismo un’esperienza ormai consegnata alla storia, conclusasi nel 1945. È falso! L’antifascismo è base della nostra Costituzione e ne forma i contenuti. La Costituzione si oppone al fascismo e alla sua cultura totalitaria. Valorizza la persona, la sua dignità, la libertà di pensiero, espressione, organizzazione e prescrive alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli economici, sociali, culturali che ne impediscono l’effettiva uguaglianza. Il fascismo è stato una dittatura spietata, che si è affermata con la violenza, ha imposto l’obbligo di adesione al regime per avere un lavoro, facendo licenziare chi si rifiutava, ha colpito, confinato nelle carceri e ucciso gli oppositori, ha scatenato guerre di aggressione contro altri popoli. Con le leggi razziali del 1938 ha tolto i diritti di cittadinanza agli ebrei italiani ed è stato complice dei nazisti nel loro sterminio. Insieme ai nazisti ha partecipato al secondo conflitto mondiale, con i suoi 60 milioni di morti, le distruzioni, la sconfitta e la catastrofe dell’Italia. Non si può, senza essere antifascisti, condividere compiutamente la nostra Costituzione.
Bisogna soprattutto metterne in evidenza i valori che lo rendono attuale: libertà, democrazia, uguaglianza almeno nelle opportunità di vita, non violenza. Non è vero che la storia non si ripete. Non si ripete nelle stesse forme. Oggi non c’è bisogno di una marcia su Roma, che tra l’altro sarebbe stata spazzata via se il re Vittorio Emanuele III avesse firmato lo stato d’assedio, basta controllare i mezzi di informazione, limitare la libertà di stampa, condizionare la Corte costituzionale, travolgere l’equilibrio tra i poteri dello Stato, mortificare la partecipazione dei cittadini. L’Ungheria è il modello delle forme con le quali l’autoritarismo può realizzarsi. La nostra Costituzione è costruita dal punto di vista delle istituzioni democratiche sul principio di rappresentanza. Il Parlamento ne è un centro. Se introduco l’elezione diretta del presidente del consiglio, tra l’altro un unicum, vi immetto un corpo estraneo, che la scompagina. Se voglio dare stabilità ai governi, senza colpire il Parlamento e il ruolo del Presidente della Repubblica, prevedo in Costituzione la sfiducia costruttiva, che esiste e funziona in Germania e in Spagna. Ecco: l’attualità dell’antifascismo consiste nell’opporsi allo snaturamento dei fondamenti democratici, all’impoverimento delle libertà, all’instaurazione strisciante di nuovi regimi di impronta autoritaria.
L’antifascismo nasce in opposizione a un movimento politico, quello fascista, che ha un braccio armato, una milizia che, godendo della protezione delle autorità dello Stato, finanziata dagli agrari e da settori della grande industria, con la violenza si scaglia contro gli esponenti della sinistra, dei popolari, dei liberaldemocratici, contro sindacati, cooperative, municipi, giornali, case del popolo. Quest’anno ricorrono cento anni dall’assassinio di Giacomo Matteotti, segretario del Partito Socialista Unitario. Antonio Gramsci sarà fatto morire in carcere, Piero Gobetti, Giuseppe Donati, Giovanni Amendola moriranno a seguito di persecuzioni e aggressioni dei fascisti, i fratelli Rosselli saranno assassinati, insieme a tanti altri oppositori. Mi permetta due considerazioni: bisogna sfatare il racconto revisionista di una dittatura fascista mite rispetto a quella nazista. Il fascismo è stata una dittatura crudele e spietata. Altro aspetto da sottolineare: nel 1943 la Resistenza è stata un’epopea di popolo. Accanto ai partigiani c’era la grande maggioranza non solo dei lavoratori, ma delle classi popolari, dei cittadini. La Resistenza non è stata espressione di un solo partito o di una sola parte politica, cioè della sinistra, ma di un arco di forze plurali: azionisti, cattolici, liberali, anche monarchici. Diverso fu nel 1921-1922: molti, troppi italiani sottovalutarono o furono indifferenti, mentre i fascisti perseguitavano gli oppositori e colpivano le libertà, quelle collettive e quelle dei singoli, che sono inseparabili. Anche così il fascismo poté affermarsi.
Si, l’Italia è una Repubblica antifascista. Per rendersene conto basta leggere semplicemente i primi dodici articoli della Costituzione, i Principi fondamentali. Tutti i cittadini, donne e uomini, sono uguali davanti alla legge e hanno uguale dignità: devono poter godere di uguali opportunità di lavoro, di istruzione, cura. I valori sono la libertà, non la discriminazione; la democrazia, non l’autoritarismo; la patria, non il nazionalismo; l’uguaglianza tra i sessi, non il maschilismo; la dignità di ognuno, non il razzismo; la democrazia europea non il sovranismo reazionario; la cooperazione tra i popoli, non la guerra.
Ai giovani interessa parlare dei valori dell’antifascismo, se sono calati nell’attualità del presente, non consegnati alla sola ricorrenza delle cerimonie, se vengono praticati con un impegno di coerenza, non affidati al vuoto della retorica. I giovani devono avere a disposizione una memoria viva, capace di parlarci ancora, percorrendo i luoghi dove hanno vissuto, si sono formati, hanno lottato quelli che si sono opposti al fascismo, che ci hanno donato la libertà e la democrazia. Vorrei che in tutte le scuole si leggessero le “Lettere di condannati a morte della Resistenza”: nessuno nasce decidendo di essere un eroe e di sacrificare la vita. Sono persone normali, come ognuno di noi, sono giovani e giovanissimi, che si sono trovati di fronte a situazioni drammatiche, sono stati costretti a fare delle scelte e hanno compiuto quella giusta. Sono partigiani, ex militari, donne, civili che aiutano i combattenti, renitenti alla leva fascista. In tutte le lettere si ritrovano quattro parole: Dio, patria, famiglia, pace. Le parole, anche le stesse, possono avere significati diversi. In loro Dio è amore e misericordia, a cui si rivolgono vicini alla morte, non strumento di contrapposizione agli atri, credenti o atei; patria è comunità di persone libere, non regime autoritario e oppressivo; famiglia sono genitori, fratelli, spose o fidanzate, una cellula di affetti e solidarietà, non un organismo di conservazione di ruoli gerarchici; pace è il mondo che si sogna per il futuro, per il quale si è sacrificata la propria vita.
Il fascismo è certamente «supremazia di razza», insieme è negazione della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, della tolleranza, della non violenza. Ciò che lega tutto è il culto della forza, il primato di pochi, meglio di un capo o una capa, l’asservimento a sudditi di tutti gli altri.
È stato più partecipato e vivo, per la mia esperienza, e più attaccato, anche perché quelli che lo hanno fatto rivestono ruoli istituzionali di rilievo, a cominciare da alcuni sindaci che hanno negato le piazze per le manifestazioni, per arrivare a ministri e presidenti che proprio non riescono a pronunciare la parola antifascismo e le assicuro che non si tratta di un problema di dizione. Non voglio che ci siano equivoci: sarà un bel giorno per l’Italia quello in cui tutta la destra accoglierà senza se e senza ma il valore della Resistenza e quello della permanente attualità dell’antifascismo. Una memoria condivisa è indispensabile ai popoli per costruire un futuro degno. Purtroppo, oggi non è ancora così.
La pace è indispensabile se l’umanità non vuole porre termine alla sua storia. L’università di Uppsala, che monitorizza i conflitti nel mondo, ne registra oggi 170, alcuni molto gravi e a rischio di escalation, come quelli in Ucraina e in Medio Oriente. Si sta smarrendo un discrimine che, nel 1945, aveva segnato una rottura non solo etica ma politica con il passato. L’irruzione delle armi nucleari rendeva la guerra una catastrofe irreversibile: non c’è vittoria per nessuno dei contendenti, c’è la fine dell’umanità. Invece, ai nostri giorni, si sta legittimando di nuovo la guerra, l’uso delle armi nucleari tattiche, più distruttive di quelle che cancellarono Hiroshima e Nagasaki, e si sta bollando chi si impegna per la pace come uno sciocco illuso o un colluso con gli aggressori. Siamo alla riedizione di logiche e discorsi che riecheggiano il 1914, ma in uno scenario denso di armamenti nucleari. Battersi per il cessate il fuoco, per una presenza di interposizione di forze multinazionali su mandato e responsabilità delle Nazioni Unite, per creare le condizioni per trattative che conducano a una pace giusta, non significa in alcun modo dimenticare chi è l’aggressore e chi l’aggredito. È la scelta per difendere i popoli aggrediti nel modo più giusto, nelle trattative e nelle garanzie internazionali di un Trattato di pace. Una terza guerra mondiale non salvaguarderebbe chi è stato aggredito, ma segnerebbe la fine dell’umanità.