Vite vendute, la solitudine dei nuovi lavori

Nel 2019 Ken Loach ci ha deliziato con un bellissimo film, Sorry, we missed you, raccontandoci la vita di un lavoratore dei nostri giorni che deve fare le consegne per una multinazionale, senza fiato, senza soste, senza tregua fino a che il suo lavoro non si mangia la sua vita e quella della sua famiglia.

L’aspetto che fa riflettere e che ci porta a tentare un’analisi giuslavoristica e sociologica del lavoro è che il lavoratore in questione resta sostanzialmente povero; il suo affannarsi e il suo impegno non si traducono in un aumento del reddito e scompare la tradizionale connessione, tipica del lavoro dipendente, fra orario di lavoro, risultati prodotti e maggiore riconoscimento economico. Anche lavorando 24 ore al giorno, alla fine mette insieme il giusto per sopravvivere. Perché lui non è un lavoratore dipendente.

L’impoverimento di fasce significative di popolazione, accentuato dalla pandemia ma comunque preesistente, ha riguardato e riguarda dunque anche persone che tecnicamente un lavoro lo hanno.

Le misure fin qui adottate nel nostro Paese sono state quasi esclusivamente orientate a sostenere cittadini bisognosi, senza un lavoro e con scarse possibilità di trovarlo (Reddito di Inclusione nella passata Legislatura, Reddito di cittadinanza in questa). Inoltre, si è pensato di sostenere, attraverso il blocco dei licenziamenti e la concessione della CIG in deroga, lavoratori e lavoratrici che seriamente rischiavano – e rischiano – di perdere il posto di lavoro.

Questi provvedimenti presentano profili di ambiguità. Che lo Stato eroghi risorse in favore di bisognosi e indigenti ed assicuri una rete di protezione per prevenire una possibile ondata di licenziamenti non è un fatto negativo, certamente sia sotto il profilo sociale sia da un punto di vista morale.

Il Reddito di inclusione era stato pensato per questo; è stato sostituito dal Reddito di Cittadinanza, che però è chiamato ad assolvere ad una funzione tanto impropria quanto improponibile: trovare un lavoro ai destinatari del reddito, quasi tutte persone dal bassissimo tasso di occupabilità. Disoccupazione e povertà sono fenomeni diversi e andrebbero trattati con strumenti diversi. E infatti i navigator non hanno trovato lavoro praticamente a nessuno.

Sul blocco dei licenziamenti, va detto che questo provvedimento ha suscitato dubbi sulla sua tenuta costituzionale, o sulla sua coerenza con l’Ordinamento Europeo in tema di libertà d’impresa e infatti è stato respinto in altri Paesi, come ad esempio la Spagna.

Resta il fatto che, tornati a una condizione di normalità, un sistema davvero universale di ammortizzatori sociali (già opportunamente rafforzati nel 2015 dal Jobs act) non potrà che tornare all’ordine del giorno per guidare le inevitabili transizioni da un lavoro ad un altro.

Resta la perplessità sulla proroga dell’impossibilità di licenziare per quei settori più colpiti dalla pandemia. Seguendo una comune logica, si potrebbe pensare invece il contrario: dove è presumibile una ripresa delle attività produttive, può avere più senso vietare le riduzioni del personale usando la CIG; dove invece è presumibile che le attività non ripartiranno, è discutibile continuare a sostenere posti di lavoro quasi sicuramente estinti, invece di attivare subito le persone verso la ricerca di una nuova occupazione, nei settori dove la domanda di lavoro c’è.

Non da oggi sono un convinto sostenitore di una sorta di costo di separazione a carico dell’azienda in caso di licenziamento per giustificato motivo. Un costo non solo o non tanto economico, quanto un impegno dell’azienda stessa, opportunamente regolamentato e con un orizzonte di tempo preciso, ad affiancare ed accompagnare il lavoratore o la lavoratrice da licenziare verso una nuova occupazione. Proprio in questa fase storica potrebbe trattarsi di una misura efficace.

Ma Ricky, il lavoratore di Ken Loach, non è un disoccupato, non è propriamente un lavoratore autonomo, ma non è neppure un lavoratore dipendente. Non è niente ed è tutto, è un po’ di tutte queste cose ma nessuna che lo definisca con nitidezza. È un povero che lavora, uno che deve sostenere con enorme difficoltà la sua famiglia senza potersi permettere, per non perdere tempo e quindi consegne, di fermarsi a fare pipì e figuriamoci di ammalarsi.

Ricky, metafora di tanti, è formalmente un lavoratore autonomo, proprietario dei mezzi di produzione (il suo furgone, che ha acquistato indebitandosi), ma non beneficia dei vantaggi del lavoro autonomo, perché è sottoposto alla più rigida delle etero direzioni e gerarchie.

Non è un lavoratore dipendente e non beneficia neppure delle protezioni e dei vantaggi tipici del lavoro dipendente. È un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, ma mettendo insieme non i vantaggi, ma gli svantaggi del lavoro autonomo e del lavoro dipendente.

È opportuno, anzi urgente, intervenire su tutte quelle forme di prestazione lavorativa ambigue, nel limbo del non classificabile, con paghe medie inaccettabili. Dove i Contratti Collettivi non arrivano e non si applicano perché non si tratta di lavoro dipendente in senso stretto, o per l’assenza e scarsa rappresentatività delle organizzazioni sindacali.

Si è parlato molto, senza però giungere a sintesi, di dare completa attuazione all’articolo 39 della Costituzione, estendendo per legge la loro applicazione e tutti i lavoratori dipendenti, anche a quelli che ne possono restare scoperti, mantenendo il ruolo primario dei sindacati nella contrattazione dei livelli retributivi, funzione storica delle organizzazioni sindacali alla quale i sindacati stessi, comprensibilmente, tengono molto; e, anche, di istituire un salario minimo per legge, o minimum wage, o ancora paga oraria minima universale, per una copertura completa di tutte le prestazioni lavorative.

Che sul minimum wage sia necessario agire con cautela è senz’altro vero. Una paga minima troppo generosa potrebbe condurre fuori mercato settori meno produttivi con retribuzioni mediamente più basse. Adottato questo accorgimento, è stato osservato (non senza qualche ragione) che l’imprenditore potrebbe scegliere di applicare il salario minimo per legge, rispettando appunto le legge, piuttosto che negoziare con i sindacati livelli salariali presumibilmente più alti ed il salario minimo avrebbe così un effetto depressivo sui livelli retributivi medi.

Per l’insieme di queste ragioni, probabilmente le due misure andrebbero prese insieme e ciò dovrebbe consentire una copertura totale per tutti i lavoratori e le lavoratrici.

Eventuali punti di criticità che sicuramente potrebbero emergere non sembrano una buona ragione per non intervenire su un problema che è sotto i nostri occhi e che Ken Loach ha avuto il merito di portare sullo schermo con la sua maestria, la sua sensibilità, la sua qualità di grande interprete del nostro tempo.

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