Ho incontrato Vito Mancuso alla fine del suo intervento, La corona della giustizia, al festival Filosofia al mare che si svolge a Francavilla al Mare, in Abruzzo. L’edizione di quest’anno, l’undicesima, con la direzione scientifica di Carlo Tatasciore, ospita Umberto Curi, Gherardo Colombo, Vinzia Fiorino, Giacomo Marramao e Massimo Cacciari. Il tema: Conversazioni sulla Giustizia.
Ogni città, ogni paese, ogni borgo, dovrebbero organizzare, almeno una volta all’anno, un festival di filosofia, perché la conoscenza della filosofia (e della scienza) aiuta a vivere meglio, soprattutto aiutano a relativizzare tutto ciò che accade attorno a noi, attenuano il clangore, spesso assordante e coprente, della contemporaneità.
I filosofi parlano lentamente, quasi tutti, e si ascoltano quando parlano. Usano bene le parole. Le cercano con cura e partono sempre dall’etimologia, dalla storia e dall’origine delle parole stesse. E sono capaci di fare comunità, di creare comunità, anche se parlano solo per un’ora. Fuori dal clamore sanno essere un baluginio di speranza, in un tempo senza più futuro e senza speranza.
Vito Mancuso si trova a suo agio sul palco di Filosofia a mare, è di casa da queste parti. È teologo e ha insegnato Teologia moderna e contemporanea presso la Facoltà di Filosofia dell’Università San Raffaele di Milano, e Storia delle dottrine Teologiche presso l’Università degli Studi di Padova.
«È stato ordinato sacerdote dal cardinale Carlo Maria Martini all’età di 23 anni e sei mesi. A distanza di un anno ha chiesto di essere dispensato dalla vita sacerdotale e di dedicarsi solo allo studio della teologia. Dietro indicazione del cardinal Martini ha vissuto due anni a Napoli presso il teologo Bruno Forte (attuale arcivescovo di Chieti e Presidente della Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede della Cei), sotto la cui direzione ha conseguito il secondo grado accademico, la Licenza, presso la Facoltà Teologica San Tommaso d’Aquino».
Un uomo poco allineato.
Poco allineato con le gerarchie ecclesiastiche. Poco allineato anche con alcuni dei suoi colleghi.
La cultura di Mancuso emoziona le persone che lo ascoltano perché lui la condivide senza condizioni.
«Io credo nel valore delle parole. Credo nella verità delle parole», dice più o meno a metà del suo intervento, e ancora «noi consistiamo nel nostro linguaggio». Soprattutto adesso che non percepiamo più il senso, il significato delle cose, penso e scrivo mentre lo ascolto.
Ha parlato per più di un’ora senza interruzioni. Senza bere nemmeno un sorso d’acqua, in piedi con il microfono in mano a guardare negli occhi ognuno dei presenti. Alla fine, quando tutti erano andati via, abbiamo iniziato l’intervista. Sul palco, con le luci ormai spente e la musica di Ennio Morricone come sottofondo.
È una domanda alla quale rispondo con un po’ di difficoltà perché suppone una visione delle cose di tipo sociale, politico, che non è precisamente la mia impostazione. Poi penso anche che sia anche prematuro giudicare, posso sbagliare naturalmente. Ci possono essere motivi per parlare di fragilità, ma ci possono essere motivi per parlare anche di una capacità di reazione che comunque c’è stata. Di una certa compattezza, di una certa disciplina del popolo che adesso probabilmente viene meno, ma che per mesi e mesi c’è stata.
Sento la verità di quello che dici, non ho gli strumenti per argomentare. Forse non sto neanche rispondendo, non lo so. Mi pare però che la fragilità di certe politiche appaia. Penso alle politiche di Donald Trump, a Bolsonaro, a Boris Johnson, persone che si sono fatte eleggere a dispetto del reale, in un certo senso, a dispetto dei dati. Che hanno basato la loro azione politica e prima ancora la loro possibilità di raccogliere il consenso sul populismo, alla fine si sono dimostrati incapaci di governare la realtà e la realtà li sta travolgendo. Questo è un dato di fatto.
L’Italia, era già fragile prima della pandemia. Avevamo e abbiamo la crisi del debito pubblico, ma con tutte le nostre pecche abbiamo resistito abbastanza bene. In certi posti meglio e in altri meno. Penso alla reazione del Veneto che era partito con gli stessi problemi della Lombardia, se non peggio. Vo’ (Euganeo) da un lato e Codogno dall’altro, i focolai erano quelli, le reazioni sono state diverse. Ho avuto paura quando i treni con le persone che vivono al nord sono partiti per il sud e invece il sud ha retto molto bene.
Penso che avremmo bisogno di una sintesi politica che non c’è. L’Occidente, l’Europa e l’America, hanno bisogno di un politico che sappia fare sintesi di questa grande esperienza. Che sappia legare quello che ha rappresentato il Coronavirus e la crisi ambientale in atto: questo è il grande problema. Senza far venire meno le sfide economiche. Capisco che ci siano pressioni per ripartire perché altrimenti le aziende falliscono e se falliscono le aziende falliscono le famiglie. Abbiamo bisogno di sintesi, della politica, di grandi politici, come dell’aria che respiriamo, e di questi non se ne vedono.
Se c’è una cosa che questa emergenza dimostra è che la qualità etica dei politici e dei governanti è decisiva. Il fallimento di Trump e Bolsorano dimostra esattamente questo: l’incuria e l’incapacità di guardare. E perché sono stati incapaci di guardare? Perché è gente capace di guardare solo a se stessa. Gente incapace di intenzionare la realtà. Ancora una volta il profilo etico emerge come un decisivo valore politico. Perché ci possa essere un grande politico ci deve essere una persona giusta.
Penso ai grandi politici del Novecento. Gandhi, Nelson Mandela. E agli italiani Alcide De Gasperi, Enrico Berlinguer, Aldo Moro. Persone che hanno mostrato come la politica e l’etica vadano di pari passo. E invece oggi siamo tutti figli di Macchiavelli e nessuno è figlio di altre tradizioni. Per esempio di quella confuciana secondo la quale la giustizia personale è l’ingrediente politico numero uno, se non c’è questo non c’è politica. Hai malaffare, cricca, ma non hai politica.
La complessità dei problemi, la capacità di legare la dimensione ecologica con la dimensione sanitaria e con la dimensione economica, richiedono intelligenza, creatività, soprattutto dirittura morale. Noi abbiamo bisogno di queste cose. Si parla poco oggi di queste cose.
Si hai ragione, Papa Francesco lo dice e anche per questa ragione è, oggi, il più grande politico nel senso ideale, pieno e umano del termine. La sua vera forza è la capacità politica di saper parlare al mondo, molto meno alla Chiesa, al suo interno e a governare le sue correnti.
Penso di sì. Penso che, per una serie di motivi, siano anche l’unico pensiero forte che è rimasto. La scienza e le religioni. Per pensiero forte intendo quel pensiero capace di motivare gli esseri umani, di dare coraggio. La scienza per l’autorevolezza dei dati, le religioni come serbatoi di speranza, di forza irrazionale capace di dare coraggio. Un’alleanza tra le religioni oggi è decisiva per salvare il nostro Pianeta. Papa Francesco ci sta lavorando e non solo lui, il Dalai Lama ci sta lavorando, il buddismo ci lavora da sempre, quanto questo possa avere un esito positivo lo vedremo perché sappiamo bene che il mondo religioso è attraversato da integralismi, da persone che vogliono la guerra tra le religioni e non l’armonia. Stanno aumentando contemporaneamente le persone che vogliono il dialogo e quelli che non lo vogliono, per questa ragione ci sono molte tensioni all’interno delle religioni.
L’intervista finisce qui, contemporaneamente cessa anche la musica di Ennio Morricone. Mi resta in testa la sua ultima affermazione, quando c’era ancora il pubblico ad ascoltarlo, ma non ho fatto in tempo a chiedergli spiegazioni.
Si era chiesto, «Qual è lo specifico di un essere umano? Lo spazio/vuoto. Il caos. L’abisso».
L’applauso che lo saluta è sentito. Sincero. Vero.